I Promessi Sposi: le vicende riassunte in poche pagine

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  1. Milea
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    Scena 21: Lucia al castello dell’Innominato (Cap. XXI)

    Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia, e le lacrime di Lucia al castello dell'Innominato scuotono e turbano il potente signore, già da tempo scontento della sua vita.
    Nella notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio.
    Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con nuovi e buoni propositi.

    “A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l'uscio si spalancò. L'innominato, dalla soglia, diede un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il piú lontano dall'uscio. “Chi t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata?” disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo. “S'è messa dove le è piaciuto,” rispose umilmente colei: “io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.” “Alzatevi," disse l'innominato a Lucia, andandole vicino.
    Ma Lucia, a cui il picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell'animo spaventato, stava piú che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
    “Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene," ripeté il signore... “Alzatevi!” tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due volte comandato invano.”





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    Scena 22: Il cardinal Federigo Borromeo (Cap. XXII)

    Viene riferito al signore che il cardinale Federigo Borromeo è giunto in paese in visita pastorale. L'Innominato decide di andare da lui.
    Gran parte del capitolo è occupata in una biografia del grande cardinale milanese.

    “La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume.
    Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della religione.
    Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero.”





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    Scena 23: Conversione dell’Innominato (Cap. XXIII)

    In questo capitolo si concretizza la giustamente famosa «conversione dell'Innominato».
    Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione.
    Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona, e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza.
    Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.

    “L'innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. “E che?” riprese, ancor piú affettuosamente, Federigo: “voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?””Una buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.””Che Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo," rispose pacatamente il cardinale.”





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    Scena 24: Liberazione di Lucia (Capitolo XXIV)

    Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende.
    L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.

    “Il lettighiero, stimolato da' cenni dell'innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano all'arcione; e non osava però pregare che s'andasse più adagio, e dall'altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile.
    Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo l'uso de' pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull'orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio. “Anche tu, - diceva tra sé alla bestia, - hai quel maledetto gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero!”






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    Scena 25: Il cardinale a casa di don Abbondio (Capitolo XXV)

    Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il prelato. Il cardinale viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo.
    Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.

    “Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse ch'era un giovine un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico.
    Ma, a piú particolari e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan detto.”






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    Scena 26: I cento scudi d’oro (Capitolo XXVI)

    Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento.
    Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio.
    Ma non riescono a comunicare con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.

    “Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell'innominato.
    Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d'oro ch'eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell'uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune piú desiderate.
    Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che maraviglia; e le presentò il rotolo, ch'essa prese, senza far gran complimenti. "Dio gliene renda merito, a quel signore,”...”





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    Scena 27: Donna Prassede e don Ferrante (Capitolo XXVII)

    Renzo riesce a mettersi in comunicazione con Agnese, dalla quale riceve il denaro e la notizia della rinuncia di Lucia.
    Egli è sorpreso e amareggiato dalla rivelazione; a sua volta Lucia, ospite presso Donna Prassede e don Ferrante, stenta a dimenticarlo, anche perché donna Prassede, per toglierglielo dalla mente, non fa che parlare di lui.

    “Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo.
    Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso. "Ebbene?" le diceva: "non ci pensiam più a colui?"
    "Io non penso a nessuno," rispondeva Lucia.”





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    Scena 28: Ospitalità dell’Innominato (Cap.XXIX-XXX)

    Per sfuggire ai saccheggi in paese, don Abbondio, Perpetua e Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta, la gente della zona.
    Accolti amorevolmente dal signore, i tre attendono il passaggio dei Lanzichenecchi.

    “Signor curato,” disse, quando gli fu vicino, “avrei voluto offrirle la mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser utile in qualche cosa.” “Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima,” rispose don Abbondio, “mi son preso l'ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante…” “Benvenuta,” disse l'innominato.”E questa," continuò don Abbondio, “è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella... di quella...”
    “Di Lucia," disse Agnese.”Di Lucia!” esclamò l'innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese.
    “Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui... da me... in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione.”
    “Oh giusto!" disse Agnese:“vengo a incomodarla. Anzi,”continuò, avvicinandosegli all'orecchio,“ho anche a ringraziarla...”
    L'innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia”.




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    Scena 29: Arrivano i Lanzichenecchi (Capitoli XXVIII-XXIX)

    A Milano, superata apparentemente la carestia, giunge la notizia di un nuovo flagello: arrivano i Lanzichenecchi, truppe tedesche venute all'assedio di Casale Monferrato.

    “Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando s'avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell'esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era sempre qualche sprazzo...”








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    Scena 30: La peste (Capitoli XXXI e XXXII)

    Quando ritornano alle loro case, le trovano orribilmente saccheggiate dai soldati nemici.
    Inoltre il passaggio delle milizie straniere ha lasciato la peste, che comincia a imperversare a Milano e nel contado.

    “Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
    Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva.
    La peste fu piú creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno piú; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.”






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    Scena 31: Gli untori (Capitoli XXXI e XXXII)

    In città la confusione è grande. Il cardinale ordina una processione espiatoria che non fa che accrescere il contagio.
    Dovunque si parla di untori, cioè di agenti del nemico incaricati di spargere la peste ungendo le porte e i muri delle case. Si istituiscono anche «infami» processi contro innocenti, accusati dall'isterismo popolare.

    “Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore. ……Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente.
    Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi.
    Come per accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri.
    Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.”





    Edited by Milea - 24/6/2014, 21:47
     
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