Yemen: viaggio nel Paese delle eterne bambine

Nella terra della Regina di Saba, dove le donne rimangono "minori a vita"

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    Yemen: viaggio nel Paese delle eterne bambine



    Viaggio nello Yemen, tra povertà e palazzi d'argilla. Le immagini del Paese che dopo 33 anni di dittatura sta precipitando in una sanguinosa guerra civile. Una scrittrice ha indossato il velo ed è andata nella terra della Regina di Saba, dove le donne rimangono ''minori a vita''.


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    Gli estremisti ci minacciano con la jambia (il pugnale ricurvo che gli uomini tengono in vita, ndr), ma noi yemenite restiamo in piazza per dimostrare contro il regime corrotto del presidente Saleh» denuncia Jamila Ali Raja al telefono dalla capitale Sanaa. Già consulente del ministero degli Esteri, Jamila è in prima linea nell’addestrare le altre donne spiegando quali siano i loro diritti. Con 23 milioni di abitanti e un migliaio di dollari di reddito medio pro-capite l’anno, lo Yemen è il più povero fra i Paesi arabi: il 41,8 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà (2 dollari al giorno) e un terzo soffre la fame cronica. Al potere dal 1978, il presidente Saleh ha promesso un aumento di 47 dollari nelle buste paga di dipendenti pubblici e militari, ma non è servito.
    E anche le donne hanno i loro motivi per protestare: non hanno autonomia legale e sono minori a vita, sotto la tutela di un guardiano che decide per loro; il tasso di mortalità per parto è il più alto nella regione, la violenza domestica non è reato e in Parlamento siedono solo tre deputate. Eppure, sull’onda lunga delle rivolte nordafricane, le donne sono riuscite a uscire dal cono d’ombra e si è innescato un processo di cambiamento. La situazione nel Paese della regina di Saba oggi è completamente diversa da quando ci sono andata la prima volta, qualche anno fa.

    Per amore (di un italiano) avevo indossato il velo, lasciando scoperti il viso e le mani, che però bastavano ad attirare l’attenzione. Un giorno, poco prima dell’ora di pranzo, mi avviai a casa da sola, prima del mio compagno. Il tassista, anziché badare al traffico, si girava continuamente: a Sanaa le donne che girano a viso scoperto si contavano sulle dita di una mano. Il giorno dopo venne a prenderci un autista per visitare i villaggi vicino alla capitale. Aveva dodici figli, tutti dalla stessa moglie. La media era sette pargoli a donna, oggi siamo scesi a cinque. Dopo l’escursione incontrai il ministro della Sanità mentre con altri uomini masticava il qat, un alcaloide che dà un senso di euforia e provoca forme di dipendenza. Lo Yemen è povero di petrolio e anche di acqua, assorbita in gran parte proprio dalle coltivazioni di qat, il cui consumo prosciuga pure le finanze familiari. L’economia non regge la crescita demografica e con il ministro azzardai una discussione sul controllo delle nascite, ma lui sentenziò che «far tanti figli è segno di virilità».

    In Yemen, unica repubblica della penisola araba, ho notato che la poligamia è praticata da quelli che hanno studiato all’estero e hanno un buon lavoro: le donne costano, e permettersi più di una sposa è un lusso per pochi. Lì ho toccato con mano che cosa significhi la segregazione femminile: a casa di un medico laureato in Inghilterra, la giovane moglie era reclusa in cucina, con i figli piccoli e la servitù (rigorosamente al femminile). Mi è stato consentito di salutarla ma nessuno degli altri ospiti - maschi - l’ha incrociata. È difficile che quella donna, in una villa arroccata su un colle poco distante da Sanaa, potesse scendere in strada a manifestare.

    Eppure, per tornare a oggi, nel Paese delle spose bambine (dove solo il 31 per cento delle femmine viene iscritto alla prima elementare) a scatenare le proteste a metà febbraio è stata proprio una donna: 32 anni, sposata e madre di due figli, Tawakkol Karman è giornalista e direttrice dell’associazione "Donne senza catene". È finita in cella, ma la pressione popolare ha obbligato le autorità a rilasciarla. Anche perché in Yemen l’onore di famiglie, clan e tribù si gioca sul corpo delle donne. Dopo di lei, tante altre sono scese in piazza, nel momento in cui padri, fratelli e mariti sono stati arrestati. Alle istanze di democrazia, queste donne aggiungono la richiesta di maggiori diritti, ma il presidente Saleh le accusa di non essere "buone musulmane" perché, scendendo in strada al fianco degli uomini, hanno infranto il tabù della segregazione. Per protestare contro queste affermazioni, decine di migliaia di yemenite hanno partecipato alle dimostrazioni perché «accusarci è una vergogna, dopo tutto le donne hanno partecipato alle conquiste musulmane».

    «Discutere di emancipazione è azzardato, forse dovremmo accontentarci di parlare di partecipazione» interviene ancora Jamila Ali Raja. Il Paese è sull’orlo della guerra civile, nella capitale le truppe governative si sono scontrate con gli uomini della confederazione tribale degli al-Hashid. Washington ha ritirato il corpo diplomatico e, per reprimere l’opposizione, Saleh sventola lo spettro di al-Qaeda. «Non sappiamo come andrà a finire - conclude Jamila - ma non vogliamo essere usate per far numero nelle dimostrazioni. Per garantirci maggiori diritti nel lungo periodo chiediamo di avere un ruolo nel riscrivere la Costituzione». Farian Sabahi


    A Sanaa, capitale dello Yemen, di notte tra i scenografici palazzi d'argilla.

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    A Kawkaban, nello Yemen, città che si trova sulla cima del Jebel Kawkaban, a circa 2.800 metri di altitudine.

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    Un altro scorcio notturno di Sanaa, la capitale dello Yemen, uno dei Paesi più poveri tra i vicini arabi.

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    A Kawkaban, nello Yemen, città che si trova sulla cima del Jebel Kawkaban, a circa 2.800 metri di altitudine.

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    La porta di accesso di Hababah, paese sperduto nel sud dello Yemen, famoso per la sua scenografica cisterna.

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    A Shibam, città dello Yemen nel governatorato dell'Hadramawt, nel sud del Paese. In alcuni periodi storici è stata la capitale del regno.

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    Edited by Lottovolante - 11/6/2011, 12:23
     
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    Sullo Yemen lo spettro della Somalia

    A differenza delle altre rivolte nella regione qui ci sono divisioni tribali e religiose



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    Se gli Italiani facessero figli al ritmo dello YEMEN, tra quindici anni saremmo 120 milioni: il doppio di adesso. Se la primavera democratica in Tunisia ed Egitto si fosse mossa con i tempi yemeniti, Mubarak e Ben Ali non sarebbero ancora definitivamente usciti di scena. E continuerebbero a muovere i fili, magari da un letto di ospedale in esilio.

    A Sana’a, una delle più antiche capitali del mondo con i suoi altissimi palazzi di argilla colorata e l’aria fine dei 2.300 metri di quota, l’atmosfera nelle ultime settimane si è fatta molto pesante. Sanguinante. Stagnante: ai piedi della penisola arabica il passo del rinnovamento istituzionale sembra inversamente proporzionale a quello dell’incremento democrafico. Le manifestazioni popolari per un’apertura del regime del presidente Ali Saleh, al potere dal 1978, sono cominciate a gennaio, innescate dalla rivoluzione dei gelsomini a Tunisi e dal vento di piazza Tahrir al Cairo. Ma sono passati oltre quattro mesi e in quella che gli antichi romani chiamavano Arabia felix la situazione si è complicata anziché semplificarsi. Saleh si è rimangiato più volte la promessa di farsi da parte. Le proteste pacifiche dei giovani che chiedevano più libertà hanno lasciato posto alle cannonate tra avverse (e molto simili) fazioni tribali: il clan Saleh contro gli Al Ahmar.

    Persino la partenza precipitosa del presidente mezzo ustionato (ha bruciature su 40% del corpo), volato in Arabia Saudita per farsi curare le ferite riportate in un attacco contro il suo palazzo, non è servita a sbloccare la crisi. La sua cricca, guidata dal figlio quarantenne che è a capo delle forze speciali, è ancora in piedi. Si rincorrono voci e smentite su trattative e compromessi per un nuovo governo che, comunque vada, avrà bisogno di anni per sanare le fratture che minano l’unità: tra Nord e Sud, sunniti e sciiti, modernità e tradizione (lo Yemen è il Paese delle spose bambine).

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    Un mero cambio di classe (clan) dirigente servirebbe a poco. D’altra parte è impossibile che il garante del nuovo patto nazionale possa essere ancora Saleh. Il suo ritorno in patria non è neppure nell’interesse di potenze vicine e lontane. L’Arabia Saudita preme per un cambio (anche di facciata) che spenga la miccia di una tensione che potrebbe propagarsi nel principale regno del petrolio. Le diplomazie occidentali puntano a una soluzione rapida, in modo da evitare allo Yemen (25 milioni di abitanti) l’ennesimo sfregio che la farebbe assomigliare ancora di più a uno «Stato fallito» o sfigurato tipo Somalia (che poi non è lontana neanche geograficamente, stando dall’altra parte del Golfo di Aden). La geografia tribale del Paese (assente in Egitto o in Tunisia) complica tutto. La paura dell’Occidente si chiama innanzitutto terrorismo. La branca locale di Al Qaeda è la più attiva e la più pericolosa. Mentre i palazzi di Sana’a sono tornati off-limits per i turisti, nell’aria rarefatta dei suoi duemila metri la primavera yemenita non è ancora partita. Michele Farina Fonte

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1 replies since 11/6/2011, 11:07   104 views
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