GIUSEPPE UNGARETTI: sentimento di un uomo

Poesie di Giuseppe Ungaretti - 08/02/1888 – 01/06/1970

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    La morte si sconta vivendo.
    (GIUSEPPE UNGARETTI da Sono una creatura, ne L'allegria)



    Il giorno 8 febbraio 1888 nasce ad Alessandria d'Egitto il grande poeta Giuseppe Ungaretti, da Antonio Ungaretti e Maria Lunardini entrambi lucchesi. Nella città natale trascorre l'infanzia e i primi anni della giovinezza. La famiglia si era infatti trasferita in Africa per ragioni di lavoro. Suo padre, però, che lavorava come operaio alla costruzione del canale di Suez, muore in un incidente; la madre è così costretta ad arrangiarsi ma riesce a mandare avanti la famiglia grazie ai guadagni di un negozio della periferia di Alessandria. Il piccolo Giuseppe viene dunque allevato dalla madre, da una balia sudanese e da Anna, un'anziana croata, adorabile narratrice di favole.

    Ormai cresciuto, frequenta l'Ecole Suisse Jacot, dove viene a contatto per la prima volta con la letteratura europea. Nel tempo libero frequenta anche la "Baracca rossa", un ritrovo internazionale di anarchici che ha come fervente organizzatore Enrico Pea, versiliese, trasferitosi a lavorare in Egitto.

    ungaretti
    Si trasferisce in Italia con l'intenzione di andare in Francia per compiere studi di diritto a Parigi, per poi tornare in Egitto. A poche settimane di distanza si reca finalmente a Parigi, raggiunto poi da Mohammed Sceab, che muore però suicida qualche mese dopo. Si iscrive alla facoltà di lettere della Sorbona e prende alloggio in un alberghetto in rue Des Carmes. Frequenta i maggiori caffè letterari di Parigi e diventa amico di Apollinaire, al quale si lega con profondo affetto.

    Malgrado la sua lontananza dall'Italia rimane comunque in contatto con il gruppo fiorentino che, staccatosi dalla Voce, ha dato vita alla rivista "Lacerba". Nel 1915 pubblica proprio su Lacerba le prime liriche. Viene però richiamato e inviato sul fronte del Carso e su quello francese dello Champagne. La prima poesia dal fronte è datata 22 dicembre 1915. Trascorre l'intero anno successivo tra prima linea e retrovie; scrive tutto il "Porto Sepolto", che viene pubblicato presso una tipografia di Udine. Curatore degli ottanta esemplari è "il gentile Ettore Serra", giovane tenente. Ungaretti si rivela poeta rivoluzionario, aprendo la strada all'ermetismo. Le liriche sono brevi, a volte ridotte ad una sola preposizione, ed esprimono forti sentimenti.

    Torna a Roma e su incarico del Ministero degli Esteri si dedica alla stesura del bollettino informativo quotidiano. Intanto collabora alle riviste La Ronda, Tribuna, Commerce. La moglie nel frattempo insegna francese. La difficile condizione economica lo induce a trasferirsi a Marino nei Castelli Romani. Pubblica a La Spezia una nuova edizione de "L'Allegria"; include le liriche composte tra il 1919 e il 1922 e la prima parte del "Sentimento del Tempo". La prefazione è di Benito Mussolini. La raccolta segna l'inizio della sua seconda fase poetica. Le liriche sono più lunghe e le parole più ricercate.

    Con il premio del Gondoliere del 1932, assegnato a Venezia, la sua poesia ha il primo riconoscimento ufficiale. Si aprono le porte dei grandi editori. Pubblica ad esempio con Vallecchi "Sentimento del Tempo" (con un saggio di Gargiulo) e dà alle stampe il volume "Quaderno di traduzioni" che comprende testi di Gòngora, Blake, Eliot, Rilke, Esenin. Il Pen Club lo invita a tenere una serie di lezioni in Sud America. In Brasile gli viene assegnata la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di San Paolo, che terrà fino al 1942. Esce l'edizione compiuta del "Sentimento del Tempo".

    Nel 1937 una prima tragedia familiare colpisce Ungaretti: muore il fratello Costantino, per il quale scrive le liriche "Se tu mio fratello" e "Tutto ho perduto", apparse successivamente in francese in "Vie d'un homme".Da lì a poco, per un attacco di appendicite malcurato, muore in Brasile anche il figlio Antonietto, di soli nove anni. Rientrato in patria è nominato Accademico d'Italia e gli viene conferito un insegnamento universitario a Roma per "chiara fama". Mondadori inizia la pubblicazione delle sue opere sotto il titolo generale "Vita d'un uomo".

    Gli viene consegnato da Alcide De Gasperi il premio Roma; escono il volume di prosa "Il povero nella città" e alcuni abbozzi di "La Terra Promessa". La rivista Inventario pubblica il suo saggio "Ragioni di una poesia". Gli ultimi anni di vita del poeta sono intensissimi. E' eletto presidente della Comunità europea degli scrittori e tiene, come visiting professor presso la Columbia University una serie di lezioni, stringendo fra l'altro amicizia con letterati e pittori beat del Village newyorkese.

    In occasione degli ottant'anni riceve solenni onoranze da parte del governo italiano: a Palazzo Chigi è festeggiato dal presidente del Consiglio Aldo Moro, e da Montale e Quasimodo, con tanti amici attorno. Escono due edizioni rare: "Dialogo", libro accompagnato da una "combustione" di Burri, piccola raccolta di poesie d'amore e "Morte delle stagioni", illustrata da Manzù, che raccoglie unite le stagioni della "Terra Promessa", del "Taccuino del Vecchio" e gli ultimi versi fino al 1966.

    Viaggia negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania. Nel settembre esce il volume mondadoriano che comprende tutte le poesie, con note, saggi, apparati delle varianti, a cura di Leone Piccioni. Nella notte tra il 31 dicembre 1969 e il giorno 1 gennaio 1970 scrive l'ultima poesia "L'impietrito e il velluto". Torna negli Stati Uniti per ricevere un premio all'Università di Oklahoma. A New York si ammala e viene ricoverato in clinica. Rientra in Italia e si stabilisce per curarsi a Salsomaggiore. Muore a Milano nella notte tra l'1 e il 2 giugno 1970.

     
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    Ultimo quarto


    Luna,
    Piuma di cielo,
    Cosi velina,
    Arida,
    Trasporti il murmure d'anime spoglie?
    E alla pallida che diranno mai
    Pipistrelli dai ruderi del teatro,
    In sogno quelle capre,
    E fra arse foglie come in fermo fumo
    Con tutto il suo sgolarsi di cristallo
    Un usignuolo?

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    È questa quasi una serie di appunti in cui Ungaretti riflette la sua capacità di sintetizzare in parole brevi, incisive e risonanti le immagini e le sensazioni provocate dal suo confrontarsi con le cose in diversi momenti della giornata.
     
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    Sera


    Appiè dei passi della sera
    Va un'acqua chiara
    Colore dell'uliva,

    E giunge al breve fuoco smemorato.

    Nel fumo ora odo grilli e rane,

    Dove tenere tremano erbe. .

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    La lunga vita di Ungaretti è segnata da pochi fatti di rilevante importanza: la nascita ad Alessandria d'Egitto, che lasciò un segno non trascurabile nella sua poesia, la sua formazione a Parigi, l'esperienza della I guerra mondiale, la tragedia della perdita del figlio Antonello. Tutti questi fatti appaiono trasfigurati in immagini poetiche, apparentemente scarne ed oscure, in realtà ricche di allusioni e di una musicalità profonda e sommessa. La poesia di Ungaretti appare nel panorama lerrerario del suo tempo, come un fenomeno singolare: è chiamaata poesia pura o ermetica, per l'aspirazioneazione a liberarsi di ogni dipendenza dalle norme della comunicazione loglca, e ad esaltare la parola come puro suono quasi fosse la corda di uno strumento che risonando lascia intorno a sé vibrazionI e echi che si allargano all'infinito. Anche lo spazio che rimane bianco sulla pagina intorno alla parola isolata ha nella poesia di Ungaretti un significato e un valore: come un silenzio nel quale il suono si stacca con tutto il suo peso Nelle raccolte «L'Allegria» e «Sentimento del tempo» è compresa tutta la storia dell'uomo Ungaretti, che parla dei suoi momenti di solitudine e di contemplazione, delle meditazioni sul dolore e sulla morte e soprattutto delle amare esperienze della guerra alla quale aveva aderito inizialmente con entusiasmo, riportandone in seguito un senso di dolorosa solitudine. A questo periodo appartiene la serie di liriche scritte al fronte, che costituiscono nel loro insieme un diario poetico, che si è venuto componendo giorno per giorno negli intervalli della guerra.
     
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    Volarono


    Di sopra dune in branco pavoncelle
    Volarono e, quella sera, troppo vitrea,
    Si ruppe con metallici riflessi
    A lampi verdi, turchini , porporini.
    Pavoncelle calate qui ,
    In Sardegna svernato, l'altro giorno.
    Le odo, mentre camminano non viste,
    Che, frugando se capiti un lombrico,
    Per non smarrirsi, di già è buio, stridono.
    Tornate al nido, all'alba domattina,
    Lo troveranno vuoto,
    E la prima dozzina degli ovetti
    Scovati «< Zitti!» « Piano! ») dai monelli,
    Si porta in bicicletta a Guglielmina ,
    È Primavera.

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    Il brano riproduce parte di un articolo che il poeta, Giuseppe Ungaretti, ha dedicato agli stessi temi rappresentati in questo testo poetico.
    « Vedete quel branco di pavoncelle che poco fa svernavano in Sardegna?
    Le vedete uscire verso notte di sulle dune appartate dove riposavano?
    Vedete quel lampo di fili metallici, azzurri, fiammanti, verdi che mette il loro volo nella porcellana del tramonto?
    Le sentite, ora che' è notte, stridere per chiamarsi mentre camminano sul prato in cerca di vermi?
    Povere mamme, quale sorpresa, quando si farà giorno, tprnando a casa. Non troveranno piu le loro uova.
    Le prime scoperte verranno offerte alla Regina, e credo, come augurio della primavera!»
     
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    I Fiumi


    Mi tengo a quest’albero mutilato
    abbandonato in questa dolina
    che ha il languore
    di un circo
    prima o dopo lo spettacolo
    e guardo
    il passaggio quieto
    delle nuvole sulla luna

    Stamani mi sono disteso
    in un’urna d’acqua
    e come una reliquia
    ho riposato

    L’Isonzo scorrendo
    mi levigava
    come un suo sasso.
    Ho tirato su
    le mie quattro ossa
    e me ne sono andato
    come un acrobata
    sull’acqua.

    Mi sono accoccolato
    vicino ai miei panni
    sudici di guerra
    e come un beduino
    mi sono chinato
    a ricevere
    il sole

    Questo è l’Isonzo
    e qui meglio
    mi sono riconosciuto
    una docile fibra
    dell’universo

    Il mio supplizio
    è quando
    non mi credo
    in armonia.

    Ma quelle occulte
    mani
    che m’intridono
    mi regalano
    la rara
    felicità

    Ho ripassato
    le epoche
    della mia vita.

    Questi sono
    i miei fiumi

    Questo è il Serchio
    al quale hanno attinto
    duemil'anni forse
    di gente mia campagnola
    Il mio padre e mia madre.
    Questo è il Nilo
    che mi ha visto
    nascere e crescere
    e ardere d'inconsapevolezza
    nelle estese pianure.
    Questa è la Senna
    e in quel suo torbido
    mi sono rimescolato
    e mi sono conosciuto.
    Questi sono i miei fiumi
    contati nell'Isonzo.
    Questa è la mia nostalgia
    che in ognuno
    mi traspare
    ora ch'è notte
    che la mia vita mi pare
    una corolla
    di tenebre.

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    Tra lo squallore e la desolazione del paesaggio carsico, il fiume acquista un altissimo significato. In quelle limpide onde il poeta trova ristoro e sente che la sua personalità viene plasmata, purificata dal contatto con esse. Il fascino della lirica è nella felice compenetrazione dell'uomo nella natura e nel convergere dei ricordi, legati ad altri fiumi, tutti raffigurati dal simbolico Isonzo. Suggestiva è l'ampiezza di respiro a cui si accorda il ritmo di ogni verso.
     
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    La risposta di un poeta


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    da Pensieri di G. Ungaretti sulla poesia, in Saba, Ungaretti, Montale1966.
    A che serve la poesia ?

    La risposta è di un poeta, che esprime il suo pensiero con semplicità e chiarezza in queste poche righe, tratte da un'intervista rilasciata nel 1950, ma pure vive e attuali anche oggi.

    Non so se la poesia possa definirsi. Credo e professo che sia indefinibile e che essa si manifesti nei momenti della nostra parola quando ciò che ci è più caro, ciò che di più ci ha inquietato e agitato nei nostri sentimenti e nei nostri pensieri, ciò che appartiene più profondamente alla ragione stessa della nostra vita, ci appaia nella sua verità più umana; ma in una vibrazione che sembri superare la forza dell'uomo, e che non saprebbe mai essere conquista né di tradizioni né dello studio, sebbene delle une e dell'altro essa incessantemente si nutra. La poesia è dunque un dono come essa comunemente è considerata, o meglio essa è il frutto d'un momento di grazia al quale però una sollecitazione paziente, disperata, è necessaria, specie nelle lingue di vecchia cultura. I modi della poesia sono dunque infiniti, sono tanti quanti sono i poeti del passato, d'oggi e del futuro. Sin dalle mie prime esperienze, fatte nella tragicità della trincea, quando di fronte alla morte non c'era da pensare se non alla verità della vita ho capito bene queste cose, e mi sono sforzato nelle mie ricerche e scoperte di poesia, a insegnare che ogni poeta ha da svincolare la propria originalità liberamente, ma che ha nello stesso tempo da ricordarsi che ogni poesia, per essere tale, deve anche possedere quei caratteri d'anonimia che le impediranno sempre di apparire estranea ad un essere umano. Ogni vera poesia risolve miracolosamente il contrasto d'essere singolare, unica e anonima, universale. La poesia riafferma sempre, è la sua missione, l'integrità, l'autonomia, la dignità della persona umana. Se essa giungesse un giorno a vincere la sua battaglia, se arrivasse a salvare finalmente l'anima umana, se un giorno nell'unità delle fedi, il primato dello spirito venisse da tutti ammesso come regola fondamentale d'ogni società, la poesia avrebbe vinto la sua battaglia, e le difficoltà morali, che hanno sempre tanto tragicamente diviso l'umanità, sarebbero finalmente sciolte.
     
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    Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto
    da Vita d'un uomo: il dolore



    "Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto..."
    e il volto già scomparso
    ma gli occhi ancora vivi
    dal guanciale volgeva alla finestra,
    e riempivano passeri la stanza
    verso le briciole dal babbo sparse
    per distrarre il suo bimbo...

    Or apotrò baciare solo in sogno
    le fiduciose mani...
    E discorro, lavoro,
    sono appena mutato, temo, fumo...
    Come si può ch'io regga a tanta notte?...

    Mi porteranno gli anni
    chissà quali altri orrori,
    ma ti sentivo accanto,
    m'avresti consolato...

    Mai, non saprete mai come m'illumina
    l'ombra che mi si pone a lato, timida,
    quando non spero più...

    Ora dov'è, dov'è l'ingenua voce
    he in corsa risuonando per le stanze
    sollevava dai crucci un uomo stanco?
    La terra l'ha disfatta, la protegge
    un passato di favola...

    Ogni altra voce è un'eco che si spegne
    ora che una mi chiama
    dalle vette immortali...

    In cielo cerco il tuo felice volto,
    ed i miei occhi in me null'altro vedano
    quando anch'essi vorrà chiudere Iddio...

    E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...

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    Croazia segreta
    da NUOVE
    Roma, Harvard, Parigi, Roma, dal 12 aprile al 16 luglio 1969



    DUNJA

    Si volge verso l'est l'ultimo amore,
    Mi abbuia da là il sangue
    Con tenebra degli occhi della cerva
    Che se alla propria bocca lei li volga
    Fanno più martoriante
    Vellutandola, l'ardere mio chiuso.

    Arrotondìo d'occhi della cerva
    Stupita che gli umori suoi volubili

    Di avvincere con passi le comandino
    Irrefrenabili di slancio.

    D'un balzo, gonfi d'ira
    Gli strappi, va snodandosi
    Dal garbo della schiena
    La cerva che diviene
    Una leoparda ombrosa.

    O, nuovissimo sogno, non saresti
    Per immutabile innocenza innata
    Pecorella d'insolita avventura?

    L'ultimo amore più degli altri strazia,
    Certo lo va nutrendo
    Crudele il ricordare.

    Sei qui. Non mi rechi l'oblio te
    Che come la puledra ora vacilli,
    Trepida Gambe Lunghe?

    D'oltre l'oblio rechi
    D'oltre il ricordo i lampi.

    Capricciosa croata notte lucida
    Di me vai facendo
    Uno schiavo ed un re.

    Un re? Più non saresti l'indomabile?


    L'IMPIETRITO E IL VELLUTO

    Roma, notte del 31 dicembre 1969 - mattina del 1° gennaio 1970

    Ho scoperto le barche che molleggiano
    Sole, e le osservo non so dove, solo.

    Non accadrà le accosti anima viva.

    Impalpabile dito di macigno
    Ne mostra di nascosto al sorteggiato
    Gli scabri messi emersi dall'abisso
    Che recano, dondolo nel vuoto,

    Verso l'alambiccare
    Del vecchissimo ossesso
    La eco di strazio dello spento flutto
    Durato appena un attimo
    Sparito con le sue sinistre barche.

    Mentre si avvicendavano
    L'uno sull'altro addosso
    I branchi annichiliti
    Dei cavalloni del nitrire ignari,

    Il velluto croato
    Dello sguardo di Dunja,
    Che sa come arretrarla di millenni,
    Come assentarla, pietra
    Dopo l'aggirarsi solito
    Da uno smarrirsi all'altro,
    Zingara in tenda di Asie,

    Il velluto dello sguardo di Dunja
    Fulmineo torna presente pietà.

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    LE BOCCHE DI CATTARO - Quando persi mio padre, nel 1890, e avevo solo due anni, mia madre accolse in casa nostra, come una sorella maggiore, una vecchia donna, e fu la mia tenerissima, espertissima fata. Era venuta tanti anni prima in Egitto dalle Bocche di Cattaro dove risiedeva, ma era per nascita più croata, se possibile, che non sia la gente delle Bocche. Lo stupore che ci raggiunge dai sogni, m'insegnò lei a indovinarlo. Nessuno mai si rammenterà quanto se ne rammentava lei, di avventure incredibili, nè meglio di lei le saprà raccontare per invadere la mente e il cuore d'un bambino con un segreto inviolabile che ancora oggi rimane fonte inesauribile di grazia e di miracoli, oggi che quel bimbo è ancora e sempre bimbo, ma bimbo di ottant'anni. Ho ritrovato Dunja l'altro giorno, ma senza più le grinze d'un secolo d'anni che velandoli le sciupavano gli occhi rimpiccioliti, ma con il ritorno scoperto degli occhioni notturni, scrigni di abissi di luce. Di continuo ora la vedo bellissima giovane, Dunja, nell'oasi apparire, e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto, dove da tanto erravo. Non ne dubito, prima induce a smarrimento di miraggi, Dunja, ma subito il bimbo credulo assurge a bimbo di fede, per le liberazioni che sempre frutterà la verità di Dunja. Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo. Rinnova occhi d'universo, Dunja.
     
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    Soliloquio
    Gennaio-Febbraio 1969



    I.

    Cercata in me ti ho a lungo,
    Non ti trovavo mai,
    Poi universo a vivere
    In te mi si svelarono.

    Quel giorno fui felice,
    Ma il giubilo del cuore
    Trepido mi avvertiva
    Che non ero mai sazio.

    Fu uno smarrirmi breve,
    Già dita tue di sonno,
    Apice di pietà,
    Mi accarezzano agli occhi.

    Davi allora sollecita
    Quella quiete infinita
    Che dopo amare assale
    Chi ne godé la furia.

    II.

    Rifulge il sole in te
    Con l'alba che è risorta.
    Può ripiegarmi a credere
    Un mare tanto lieto?

    Oggi è il carnale inganno
    Che va sciupando un cuore
    Logoro dal delirio.

    Lo delude ogni mira,
    Non torna più che finto
    Il miracolo, acceca.

    III.

    Il mio amore per te
    Fa miracoli, Amore,
    E, quando credi d'essermi sfuggita,
    Ti scopro che t'inganni, Amore mio,
    A illuminarmi gli occhi
    Tornando la purezza.

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    Per i morti della Resistenza
    da Nuove
    (1968/1970)



    Qui
    vivono per sempre
    gli occhi che furono chiusi alla luce
    perché tutti
    li avessero aperti
    per sempre
    alla luce.

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    Edited by Lottovolante - 9/4/2012, 09:26
     
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    La conchiglia


    1.

    A conchiglia del buio:
    Se tu, carissima, accostassi
    Orecchio d'indovina,
    Per forza ti dovresti domandare:
    «Tra disperdersi d'echi,
    Da quale dove a noi quel chiasso arriva?»

    D'un tremito il tuo cuore ammutirebbe
    Se poi quel chiasso,
    Dagli echi generato, tu scrutassi
    Insieme al tuo spavento nell'udirlo.

    Dice la sua risposta a chi l'interroga:
    «Insopportabile quel chiasso arriva
    Dal racconto d'amore d'un demente;
    Ormai è unicamente percettibile
    Nell'ora degli spettri».

    2.

    Su conchiglia del buio
    Se tu, carissima, premessi orecchio
    D'indovina: «Da dove -mi domanderesti -
    Si fa strada quel chiasso
    Che, tra voci incantevoli,
    D'un tremito improvviso agghiaccia il cuore?»
    Se tu quella paura,
    Se tu la scruti bene,
    Mia timorosa amata,
    Narreresti soffrendo
    D'un amore demente
    Ormai solo evocabile
    Nell'ora degli spettri.
    Soffriresti di più
    Se al pensiero ti dovesse apparire
    Oracolo, quel soffio di conchiglia,
    Che annunzia il rammemorarsi di me
    Già divenuto spettro
    In un non lontano futuro.

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    Edited by Lottovolante - 9/4/2012, 09:26
     
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    Dono


    Ora dormi, cuore inquieto,
    Ora dormi, su dormi.
    Dormi, inverno
    Tiha invaso ti minaccia,
    Grida: Ti ucciderò
    E non avraipiù sonno.
    La mia bocca al tuo cuore, stai dicendo,
    Offre la pace,
    Su,dormi, dormi in pace,
    Ascolta, su l'innamorata tua,
    per vincere la morte, cuore inquieto.

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    E' ora famelica
    Dialogo
    (1966/ 1968 )
    da Ungà



    È ora famelica, l'ora tua, matto.

    Strappati il cuore.

    Sa il suo sangue di sale
    E sa d'agro, è dolciastro essendo sangue.

    Lo fanno, tanti pianti,
    Sempre più saporito, il tuo cuore.

    Frutto di tanti pianti, quel tuo cuore,
    Strappatelo, mangiatelo, saziati.

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    Stella
    Dialogo
    (1966/ 1968 )
    da Ungà



    Stella, mia unica stella,
    Nella povertà della notte, sola,
    Per me, solo rifulgi,
    Nella mia solitudine rifulgi;
    Ma, per me, stella
    Che mai non finirai d'illuminare,
    Un tempo ti è concesso troppo breve,
    Mi elargisci una luce
    Che la disperazione in me
    Non fa che acuire.

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    Dialogo: sono poesie dedicate a Bruna, ragazza brasiliana amata da Ungaretti negli anni della vecchiaia. Nell'edizione di tutte le poesie ungarettiane il poeta pretese che figurassero anche le Repliche poetiche di Bruna. Dopo la morte di Ungaretti non più vincolati alla parola del poeta per questa scelta antologica, le Repliche di Bruna non sono state più nominate.
     
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    Proverbi
    Roma 1966-1969



    UNO

    S’incomincia per cantare
    E si canta per finire

    DUE

    E’ nato per cantare
    Chi dall’amore muore.

    E’ nato per amare
    Chi dal cantare muore.

    TRE

    Chi è nato per cantare
    Anche morendo canta.

    QUATTRO

    Chi nasce per amare
    D’amore morirà.

    CINQUE

    Nascendo non sai nulla,
    Vivendo impari poco,
    Ma forse nel morire ti parrà
    Che l’unica dottrina
    Sia quella che si affina
    Se in amore si segrega

    SEI

    Potremmo seguitare.

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    Proverbi: pare davvero finita la stagione poetica ungarettiana se per cinque anni la sua vena tace. Ma ecco questi brevissimi e anche lieti proverbi scritti tra il 1966 e il'1969.
     
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