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”Tamara de Lempicka ci piace come un vizio”
Tamara de Lempicka
Mon portrait (Tamara in the Green Bugatti),1929
(Autoritratto - Tamara nella Bugatti verde)
olio su pannello di legno, 35 x 27 cm
Collezione privata
”Tamara de Lempicka ci piace come un vizio”, scrisse un critico nel 1934, consegnandoci una frase che definisce bene la passione che l'artista avrebbe suscitato nei nostri tempi.
Nel 1929, dipinge il suo autoritratto Mon portrait (Tamara nella Bugatti verde) per la copertina della rivista di moda tedesca Die Dame, un' immagine veritiera della donna indipendente che si afferma. Ha le mani guantate e il casco; è inaccessibile, una bellezza fredda e inquietante.
Tamara de Lempicka era nota per raccontare varie versioni della stessa storia o di cambiare completamente fatti per soddisfare il suo capriccio personale, confondendo costantemente intervistatori e biografi. Una di queste, ripetuta diverse volte, è la storia di come è nato questo dipinto: l'editor della principale rivista di moda tedesca “Die Dame” aveva visto Tamara guidare una gialla Renault a Monte Carlo. Tamara era vestita di giallo brillante, corrispondente al colore del veicolo, e indossava un cappello nero. Il direttore della rivista fu così preso dallo stile di guida che lasciò un biglietto da visita sul parabrezza della vettura, chiedendo alla donna vestita di giallo un contatto. Più tardi scoprì che era l'artista Tamara de Lempicka, e “Die Dame” le commissionò un autoritratto in macchina per la copertina della rivista.
Una moderna femme fatale
Quello che la Lempicka imita è il modello Garbo, una donna glamour che nasconde sotto le lunghe ciglia e sguardi suadenti inedita fermezza e tenacia. L’immagine di Venere moderna della Lempicka, nasconde in realtà una mente da Minerva, da guerriera armata di cultura, in grado di sostenere il confronto duro che serpeggia nella vita artistica di Parigi. Le donne delle sue tele sono belle e seducenti, ma hanno spesso un libro fra le mani, un volume aperto che racconta la dimestichezza dell’artista con quest’arma, appunto, da Minerva.
In una Parigi percorsa da fremiti delle femministe che reclamano il voto, abitata da intellettuali che gestiscono librerie e case editrici, da avvocatesse che aprono scuole per future deputate, da sportive che sfidano i pregiudizi maschili, da aviatrici e spericolate guidatrici d’automobile, la Lempicka non pensa di imporsi con la sola arma delle lunghe ciglia. E affronta la sfida da “donna virile”, incarnazione di quell’ibrido già tratteggiato da Valentine de Saint-Point nel manifesto della donna futurista del 1912: “Ogni donna deve possedere non soltanto virtù femminili, ma delle qualità virili; altrimenti è femmina”, laddove il termine “femmina” è usato in senso spregiativo.
La Lempicka ha sempre vissuto in modo “virile”, dominando le situazioni e conquistando rispetto, autonomia e indipendenze economica.
Non sembra allora un refuso, né una scelta volutamente fuorviante e ambigua, il nome declinato al maschile che compare nei cataloghi dei primi Salons a cui partecipa. Piuttosto, la Lempicka si sente una “donna virile”, forse, caratteristiche che molti critici riscontreranno nei suoi dipinti, che descriveranno usando proprio l’aggettivo “ virile” per indicare uno stile lucido, spigoloso: tutti sottolineano la rinuncia a un sentimentalismo zuccheroso in favore di un vigore che suscita “stupore ammirato”.
La donna dell’epoca, dunque diventa “moderna” quando adotta atteggiamenti maschili. Nessun quadro come Mon Portrait è stato identificato con un’epoca e con la liberazione femminile: l’artista nel raffigurarsi in caschetto e guanti di daino alla guida di una Bugatti che non ha mai posseduto, rivendica con spavalda sicurezza un’attività prettamente maschile. Il risultato è una delle sue opere più note dell’artista, l'icona di un'epoca, noto anche come “Donna nella Bugatti verde”. (M.@rt)SPOILER (clicca per visualizzare)
Edited by Milea - 2/7/2014, 10:04. -
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Tamara alla fine
Victor Manuel Contreras
“Vivo la vita ai margini della società,
e le regole della società normale
non si applicano
a coloro che vivono ai margini.”
Tamara è stata, e per me sarà sempre, una delle donne più straordinarie che abbia mai conosciuto: intelligente, bella, dotata di grande personalità, di un fascino ineguagliabile e, senza dubbio, di grande generosità.
Tamara e io ci siamo conosciuti in casa del principe Felix Jusupov e di sua moglie Irina Romanova, nel settembre 1958: io adolescente, studiavo a Parigi e vivevo con loro, che diventarono per me la mia famiglia.
Una sera il principe Felix invitò a cena Tamara per farmela conoscere; quando lei arrivò, rimasi colpito dalla sua eleganza e dalla sua estrema raffinatezza. Felix le si rivolse dicendo: “Tamara, mi permetta di presentarle il figlio che mi è piovuto dal cielo”.
Io mi avvicinai a lei e, quando tesi la mano, la strinse tra le sue dicendo: “Se avessi qualche anno in meno e tu qualcuno in più, parleremmo un’altra lingua”, e mi regalò uno splendido sorriso senza smettere di guardarmi negli occhi con i suoi, bellissimi, che rimasero tali sino alla fine dei suoi giorni. Quella sera non potrò mai dimenticarla.
Il giorno seguente mi invitò a visitare il suo studio, e da quel momento ci frequentammo per lungo tempo. Lei andava spesso a New York e in California, ma quando si trovava a Parigi veniva a farci visita. Poi dovetti lasciare Parigi per proseguire i miei studi a Monaco di Baviera e poi a Milano; e quando tornai a Parigi, Felix e Irina mi invitarono a vivere con loro; in quegli anni Tamara faceva la ancora la spola tra New York e Parigi, e ci facevamo visita a vicenda. Tamara era un essere affascinante, prodiga di aneddoti su quel che aveva vissuto durante la rivoluzione russa a San Pietroburgo, sui personaggi che componevano i nuclei sociali più importante dell’aristocrazia, sugli artisti e l’alta borghesia, perché illustravano la vera storia di quel mondo all’inizio del XX secolo in cui si trovò a vivere da protagonista con la sua famiglia in Russia e poi in Europa occidentale, specialmente a Parigi.
Spesso mi raccontava i momenti difficili che aveva vissuto, e allora la sua conversazione così interessante si velava di una profonda tristezza. La memoria non l’abbandonò mai, ricordava i nomi dei luoghi, i tempi e le particolarità dei personaggi. Nei numerosi eventi sociali che organizzava, prima a Parigi, poi in Messico ( a Cuernavaca, a Morelos), i giovani amavano stare con lei, la circondavano in gruppo per attingere alla sua grande cultura artistica e alla sua conoscenza dei mutamenti che avvenivano nel mondo artistico della sua epoca. Mi diceva: ”Victor, i cambiamenti nell’arte non avvengono per evoluzione, ma avvengono per rivoluzione”. E così Tamara iniziò la sua rivoluzione, con il suo enorme talento e la sua grande opera, imponendosi in un ambiente alquanto difficile: un mondo di uomini ambiziosi e gelosi, diceva.
Con decisione ed energia Tamara riusciva ad abbattere qualsiasi ostacolo incontrasse sulla strada verso il successo. Diceva: “Il successo è arrivare a fare ciò che si desidera”. Tamara non sopportava la mediocrità, era molto esigente e critica e profondamente umana. Sapeva ascoltare, e faceva osservazioni molto acute che illustrava con le sue opinioni arricchendo la conversazione in maniera intelligente e rispettosa. Era una donna dai modi molto fini, poche persone hanno questo dono meraviglioso e affascinante, quello di poter condividere in maniera intelligente le idee e tutto ciò che bisogna donare a una persona con il suo talento.
Per Tamara il mondo era più importante della famiglia, lo diceva spesso a Kizette: “Io sono nata per donare la mia opera al mondo, non a una persona sola; la mia opera mi ha dato fama, fortuna e un’enorme felicità e devi sapere che ognuno è quello che fa e non quello che fanno gli altri. Io sono la mia opera e la mia opera sono io”.
Tamara sistemò il cavalletto per dipingere nella sua camera da letto. Perché spesso si svegliava e non riusciva ad addormentarsi, perciò decise di concludere il ciclo della sua vita con le “versioni originali”, come chiamava i dipinti che riprendevano i temi della sua opera precedente. Quando qualcuno diceva: “ queste sono copie dei tuoi quadri…” lei molto infastidita, spiegava: “Non sono copie… Io sono l’autrice, la pittrice che riprende i suoi temi… Sono versioni originali, se uno è l’autore stesso dell’opera”.
Quando eravamo a Cuernavaca, facevamo visita insieme, alla principessa Maria Beatrice di Savoia e alla regina Maria Josè, sua madre; erano incontri tra grandi dame, segnate da tragici eventi storici e da vittorie che si erano trovate a vivere in maniera diretta.
Nell’ambiente sociale di Tamara era un po’ come ripercorrere un pezzo di quel passato glorioso e tragico che non toccò di vivere solo a lei, poiché il mondo intero era stato coinvolto in due grandi guerre mondiali e rivoluzioni, e senza dubbio il mondo cambia: Tamara, però, restava sempre fedele al mondo delle celebrità, della gente di talento e di successo. Mi diceva: “Devi sapere Victor, che il mondo non ci vuole né brutti, né poveri, né vecchi, né stupidi”.
Ricorderò sempre con piacere quello che Tamara mi raccontava del barone Kuffner, il suo secondo marito, di quando viaggiavano per il Mediterraneo sulla sua barca –della quale finì per diventare proprietario il suo cuoco Dick White- con i personaggi che ho conosciuto solo grazie a lei e attraverso i suoi aneddoti. Tamara aveva amato profondamente il barone, diceva: “Mi ha regalato ventotto anni di piena felicità”. Io l’ho incontrato solo due volte, nel 1960.
Tamara era molto amica di Octavio Paz e di sua moglie Maria Josè, che quando erano in Messico, trascorrevano spesso con noi il fine settimana. Tamara frequentava le grandi pittirci Margarita Blanco e Tina Contreras, lo scrittore Gabriel García Márquez. A Cuernavaca conobbe Evelyn Lambert, fondatrice insieme a Peggy Guggenheim del Museo Guggenheim di Venezia, e che come Tamara apparteneva ai più alti circoli sociali statunitensi, europei e messicani. Le cene, i cocktail, i matrimoni, le sfilate di moda organizzate da “Vogue” , erano un pretesto naturlae per la mia amata Tamara si sfoggiare i suoi splendidi abiti lunghi, gli enormi cappelli e i gioielli che solo lei poteva esibire. Indosso ad altri non avrebbero fatto la stessa figura perché troppo stravaganti, e per poterli ostentare bisognava possedere la grande personalità e l’eleganza naturale di Tamara.
In occasione di un compleanno di Margarita López Portillo, sorella del presidente messicano, Tamara la invitò a pranzo e le chiese: “E’ vero che sei la sorella del presidente?”. E margherita le rispose:”allora voglio che accetti questo mio quadro, come ringraziamento al Messico per avermi dato il miglior amico che ho, alla fine della mia vita”. “Grazie Tamara, anche io posso dire lo stesso di Victor”. “Sai Margarita, è un’esperienza terribile, vedersi morire”.
In quel momento rimanemmo tutti prigionieri di un profondo silenzio, che io decisi di rompere dicendo: “Finchè siamo insieme, c’è una buona ragione per essere felici”, e con questo, come spesso accadeva, il suo stato d’animo sconfortato cambiava. Il motivo della sua tristezza era che gli amici e le persone a cui voleva bene non le erano più accanto, quelli che amava di più erano morti, e lei diceva: “Tutto passa, tutto sbiadisce… tutto scompare…”
Si potrebbe dire che era una donna senza età, che tutti desideravano conoscere, frequentare, con cui tutti volevano stare; quando si ammalò, ricordo con tristezza che tutte le persone ricche di glamour si allontanarono dicendo che le intristiva moltissimo vederla soffrire… A Tamara sarebbe piaciuto che sua figlia vivesse accanto a lei, e invece no! Kizette e Tamara si volevano bene, ma al tempo stesso non si sopportavano. Generalmente i giovani ascoltavano con grande attenzione, attratti in particolare da quello che lei raccontava sul dilagare del comunismo nella sua bella Polonia e sui problemi che aveva dovuto vivere a causa del comunismo sovietico. Tamara odiava il comunismo. Mi diceva: “Victor, non confonderti con i mediocri, sii libero, libero, affinchè lo sia anche la tua opera”. Mi trasmetteva continuamente la sua filosofia, e confesso che grazie ai suoi consigli, in tutti questi anni, mi è sempre stata presente, al punto che la sua assenza è diventata la sua presenza.
Un giorno, come accadeva abitualmente, eravamo soli in casa perché sua figlia viveva a Houston, una nipote in Argentina e l’altra negli Stati Uniti, e venivano raramente a trovarla. Dopo pranzo andammo in terrazza, la vista del vulcano Popocatepetl era davvero spettacolare quel pomeriggio e, mentre lo contemplavamo, d’improvviso mi disse: “Victor, se ti dovessi chiedere un favore, me lo faresti?”. Io risposi: “Sì… dimmi cosa devo fare…”. “Vedendo questo vulcano il mio pensiero va al Giappone, con il Fujiyama che ritengo altrettanto splendido, e così voglio chiederti, se muoio, di essere cremata e che le mie ceneri siano disperse sul Popocatepetl. Lo faresti Victor?” “Certo Tamara, certo che lo farei… Ma la morte non rispetta le età, e se io morissi prima di te, tu lo faresti per me?” “Certo, assolutamente sì!”
L’ultimo giorno della sua vita cenammo insieme, lei, sua figlia Lizette e io, e con noi c’era l’infermiera di Tamara. All’apparenza stava bene, ma si sentiva stanca e a un tratto mi chiese di accompagnarla nella sua stanza, appoggiò le mani sulle mie spalle standomi di fronte e io camminai all’indietro verso la sua camera da letto. Arrivati davanti alla porta, mi prese per mano e mi disse: “Victor, per favore, se muoio voglio che tu ti prenda cura di mia figlia… Per favore, prenditi cura di lei”. “Sì, Tamara, certo…certo”.
Poi entrammo, la adagia sul letto e mi preparai a metterle la maschera dell’ossigeno, perché aveva difficoltà a respirare; in quel momento Kizette, che parlava con l’infermiera, entrò all’ improvviso e con una voce che mi inquietò, molto forte, mi disse: “Lasciala andare!”. Non le badai, finii di sistemare l’ossigeno; Tamara, che mi teneva la mano, si voltò a guardare Kizette e disse: “E’ molto buono, molto generoso, molto dolce…” Le diedi un bacio sulla fronte e uscii dalla stanza.
Kizette uscì con me, dispiaciuta per aver alzato la voce, e io le dissi: “Non preoccuparti, Kizette, ti capisco, è un’esperienza terribile veder morire la propria madre”. Poi la salutai, l’autista mi aspettava per portarmi a casa.
Due ore più tardi mi chiamò uno dei domestici di Tamara per dirmi: “Signore, la baronessa è morta”. Tornai immediatamente a casa sua per accompagnare la salma alle pompe funebri, affinchè io e i miei genitori potessimo vegliarla. Nella sede delle pompe funebri c’era un albero di magnolia con un solo fiore, un fiore che Tamara amava, e mentre stavo lì a pregare, la donna che si occupava delle pulizie e disse: “Tenga signore”, e mi porse il fiore. Io lo posai sul feretro e pensai: “Ecco qui una gran donna, una grande artista, e nessuno ci accompagna”. Il giorno dopo ci recavamo ogni domenica. Con l’urna contenente le sue ceneri posta sull’altare, il vescovo celebrò la messa, accompagnato dall’organo della cattedrale, e io cantai l’Ave Maria per dirle addio.
Alla fine della messa andammo al Golf Club di Cuernavaca dove di aspettava l’elicottero che ci avrebbe portato sul Popocatepetl per disperdere le ceneri. Kizette non voleva salire e diceva di spargerle nel giardino di casa sua, ma io dissi: “Sono un uomo di parola, Sali con me per constatare che rispetto la volontà di tua madre”. Eravamo già in volo quando il pilota mi disse: “Non possiamo sorvolare il cratere, c’è pericolo di essere risucchiati dal vuoto del vulcano, ma può lanciarle da qui”. Quando aprii l’urna ebbi una grande sorpresa: le ceneri erano in un sacchetto di raso lilla chiaro, un colore che a lei piaceva molto. Furono gettate nel cratere del vulcano alle 12 del 19 marzo 1980. Tamara iniziava il suo grande volo, il volo che l’avrebbe condotta all’incontro più bello… quello con Dio. (M.@rt)
Edited by Milea - 2/7/2014, 10:39.