Le grotte di AJANTA

India, Stato del Maharashtra

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    Le grotte di AJANTA


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    India, Stato del Maharashtra




    Nel Padmapani, il Buddha è raffigurato mentre regge con grazia un fiore di loto blu tra il pollice e l’indice della mano sinistra; il capo è reclinato sotto il peso di una corona troppo pesante e i suoi grandi occhi color nocciola sono socchiusi in un’espressione che infonde un senso di pace sublime. Intorno a lui, una festosa corte di musicanti, amanti, scimmie e pavoni. Nel Simhala, invece, la scena ha toni cruenti, con un bodhisattva che salva un gruppo di naufraghi dal cannibalismo di una tribù di voluttuose e sanguinarie diavolesse che li ha concupiti.

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    Queste sono, insieme a moltissime altre, raffigurazioni del Jataka, il sacro testo che racconta episodi della vita del Buddha nelle numerose incarnazioni attraversate nel suo percorso verso l’Illuminazione. Dipinte nelle 30 grotte di Ajanta, sono una straordinaria testimonianza artistica e religiosa e, al tempo stesso, sono cammei che forniscono una vivida immagine degli usi e costumi nell’India all’epoca della dinastia Gupta.

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    Racchiuse in una scenografica collina a ferro di cavallo che abbraccia un’ansa del fiume Waghora, nella piana del Deccan, le grotte di Ajanta ospitarono, dal II al Vi secolo, una folta comunità di monaci e servirono da riparo ai viandanti durante i monsoni.

    Il monumentale santuario a navate, o chaitya, delle grotta 26, racchiude elementi architettonici e decorativi tra i più raffinati di Ajanta. In fondo alla sala si trova uno stupa con un’effigie del Buddha che, curiosamente, è assiso all’occidentale. La grotta 26, è parte di un gruppo di cinque grotte, alcune delle quali mai portate a termine, scavate nel VII secolo all’estremità sud-occidentale della falesia a ferro di cavallo di Ajanta.

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    Alcune di esse ebbero funzione di templi (chaitya), altre furono monasteri ( vihara). Nelle più antiche, l’iconografia seguì i dettami della scuola Hinayana -in cui il Buddha poteva essere rappresentato solo mediante simboli- mentre in quelle dipinte più tardi a prendere il sopravvento fu la più libertaria scuola di Mahayana, e le vite del Buddha vennero descritte in ogni dettaglio figurativo.

    Sono immagini bellissime, scene corali, di volta in volta serene, crudeli, sensuali, a volte con sottintesi erotici, animate da un’infinità di personaggi. Donne, uomini, demoni, creature dal volto umano e dal corpo di uccello ( yaksha), suonatori (gandharva) e danzatrici celesti (apsara), insieme a fiori, frutti, alberi e animali. In molte delle grotte furono introdotti elementi architettonici e sculture che si fondono alla perfezione coi dipinti, creando spazi di grande suggestione.

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    Notevole è il sincretismo iconografico delle pitture, dato che soprattutto nel IV e V secolo, quando Ajanta ospitava stabilmente 200 monaci, a realizzarle furono in gran parte maestranze indù.
    La tecnica utilizzata era quella della tempera a secco. Le superfici delle grotte venivano ricoperte con un impasto di argilla, sterco bovino e fibre vegetali, spesso sette centimetri e poi con uno strato sottile di fango. Prima che quest’ultimo si seccasse, l’artista tracciava il disegno con una bacchetta di cinabro.
    Successivamente procedeva a colorarlo usando pigmenti naturali e, infine, fissava il tutto con uno strato di glutine.

    Nella grotta 26, la colossale statua del Parinirvana raffigura il Buddha coricato su un fianco, nel momento del sereno trapasso verso l’Aldilà. La luce del giorno che filtra dall’ingresso della grotta accresce l’effetto trascendente dell’effigie dell’Illuminato.

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    Questo particolare si riferisce a un altorilievo della grotta 26: alla destra del Buddha, assiso nella posizione del loto, sta un vajrapani con in mano lo scettro, detto vajra da cui prende il nome la scuola buddhista del Vajrayana.

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    La grotta 19, che presenta un’elegante facciata, fu realizzata nella seconda metà del V secolo. All’apogeo della scuola buddhista Mahayana.

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    Il chaitya della grotta 19 è il più scenografico di Ajanta. Sulle colonne sono scolpiti delicati bodhisattva, intervallati a effigi del Buddha.

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    Verso il 650, le grotte di Ajanta furono abbandonate, sia a causa del declino del buddhismo in favore dell’induismo, sia per la crescente importanza della comunità religiosa della vicina Ellora.
    E per secoli giacquero dimenticate, seminascoste dalla vegetazione. Fu il caso a favorirne la riscoperta, nel 1819, per opera di un gruppo di ufficiali britannici, portati all’imboccatura di una di esse dalle tracce di una tigre che stavano cacciando.

    Ma, dopo questo evento fortunato, le persone che si impegnarono a studiarne i capolavori, vennero perseguitate dalla malasorte. Nel 1866 l’artista inglese Robert Gill, che aveva trascorso 26 anni ad Ajanta per riportare le pitture su carta, vide il suo lavoro andato perduto nell’incendio del Chrystal Palace di Londra. Dieci anni dopo, un altro incendio divampato nel Victoria and Albert useum, ridusse in cenere le fatiche del suo assistente.
    E produssero più danni che benefici i primi, rozzi tentativi di restauro promossi nel 1920 dal nizam di Hyderabad, che a quel tempo regnava sul territorio di Ajanta. Oggi il sortilegio sembra terminato e l’opera di conservazione dell’Archeological Survey of India sta dando ottimi frutti.

    Scolpita nel VI secolo, la grotta 2 è un monastero (vihara). Le colonne e il soffitto, ornato da medaglioni a forma di fiore di loto e con geometrie a cassettoni, sono un retaggio dell’arte ellenistica portata in India da Alessandro Magno.

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    In una delle nicchie della grotta 2, sul lato sinistro del sacrario del Buddha, trovano posto due magnifiche statue raffiguranti gli yakshsa, numi tutelari della tradizione buddhista.

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    Nell’affresco della grotta 17 sono narrati episodi delle precedenti incarnazioni del Buddha.

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    Sulla destra dell’affresco, una coppia di principi si dividono l’ultima coppa di vino, prima di donare i loro beni ai poveri.

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    Ritratti nella grotta 17, questi due personaggi indossano abiti di foggia centro-asiatica. L’inserimento negli affreschi di elementi “stranieri” testimonia la frequenza degli scambi commerciali e culturali tre le varie popolazioni del continente. (M.@rt)


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    Edited by Milea - 21/7/2014, 16:14
     
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