Di corsa per i campi, un gobbo vestito da scalcagnato Rigoletto, nota comica nella tragedia, grida la notizia: don Peppino se n'è andato.
E con lui se ne va un secolo determinante per trasformare "un'espressione geografica" in un Paese chiamato Italia.
Inizia così "Novecento" di Bernardo Bertolucci.
E' il 27 gennaio 1901, in una fattoria dell'Emilia nascono due bambini, uno figlio dei padroni, l'altro dei fattori, destinati a diventare amici-nemici, ciascuno a portare avanti la lotta della propria classe.
Lo stesso giorno a Milano muore il compositore più amato, colui che con la sua musica non solo ha consegnato ai posteri pagine immortali, ma ha contribuito a creare quell'identità culturale necessaria per la nascita di una nazione.
Le sue opere, le sue romanze, i suoi cori, sono stati la colonna sonora del nostro Risorgimento, il veicolo popolare, immediato, ad alto tasso emotivo per trasmettere e diffondere ideali patriottici, dar fiato a sogni rivoluzionari.
Tanto da trasformare il suo nome in un acronimo di libertà, quel "Viva Verdi!" che, gridato nei teatri, significava per tutti "Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia!".
Tanto da spingere Felice Cavallotti a riunire Verdi, Mazzini e Garibaldi in una "triade gloriosa che benedisse il sogno dell'Unità d'Italia"
Achille Beltrame, Giuseppe Verdi nel suo studio, illustrazione tratta da «La Domenica del Corriere».
In questo senso il grande compositore di Busseto fu il nume sommo di un melodramma specchio della storia e della società ottocentesca.
Un'arte cardine del tempo, capace di riflettere nobiltà, borghesia, popolo e intersecarli parlando a orecchie e cuori i più disparati.
Arte "alta" e popolare insieme, che ha il suo habitat naturale nei teatri, l'agorà della società del tempo, che pur scanditi nella ferrea divisione in platea, palchi, loggione, si trasformano grazie al travolgente potere dell'opera in luoghi di incontro e scontro di idee, speranze ed eroici furori.
Ad accenderli, insieme con la forza romantica della musica, i testi di libretti che, occupandosi di vicende storiche o leggendarie lontane e "straniere", potevano permettersi di spendere a man bassa parole viste altrimenti con sospetto quali "patria", "unità", "libertà".
Termini di immediato impatto da cantare all'unisono, dal palcoscenico al loggione e da "tradurre" in riferimenti precisi, consoni a una situazione ben più vicina e sofferta.
Una sorta di comunicazione artistica "in codice" capace di farsi beffe della censura austriaca e di lasciar fluire sentimenti e pulsioni altrimenti soffocate.
Ma nell'opera furono soprattutto i cori a farsi strumenti palpitanti di partecipazione ed emancipazione democratica e culturale per un popolo allora poco alfabetizzato, per la prima volta sollecitato a partecipare alla costruzione di una nuova storia, prima di allora appannaggio solo di aristocratici e alto borghesi.
A differenza delle arie liriche, che spesso sollecitano le grandi pulsioni dell'inconscio, di un'adesione consapevole e collettiva a quello che sta avvenendo in scena.
Autori come Verdi, Rossini, Donizetti, Bellini, diventarono così punti di riferimento politico.
Il più emblematico dei cori resta il "Va' pensiero".
Terza opera di Verdi, "Nabucco" si snoda su un intreccio che è quanto più lontano dalla situazione del 1842, quando andò in scena per la prima volta alla Scala, subito accolto con un successo clamoroso.
Perchè in quella vicenda di ebrei soggiogati dai babilonesi il pubblico si riconobbe e si unì simbolicamente alla sofferenza degli oppressi che trova il suo momento più alto nel coro, sui versi di Temistocle Solera.
La "patria perduta" del popolo d'Israele venne subito letta come l'Italia da far risorgere.
Nato come vessillo di rivendicazioni libertarie, "Và pensiero" è stato in seguito, a più riprese, impropriamente rivendicato come alternativa di inno nazionale, quando in realtà il lamento del popolo che ha perso la patria poco si addice a rappresentare un Paese di compiuta unità.
Si devono invece a Salvatore Cammarano le ardenti parole di Giuriam d'Italia por fine ai danni, coro cardinale della "Battaglia di Legnano", che andò in scena a Teatro Argentina a Roma il 27 gennaio 1849, un mese prima dell'instaurazione della breve Repubblica Romana.
I fermenti erano nell'aria e il coro sembrava fatto apposta per rifletterli: "Giuriam d'Italia por fine ai danni / cacciando oltr'Alpe i suoi tiranni".
Le cronache della serata ricordano: "Le signore che sedevano nei palchetti avevano leggiadramente disteso sui parapetti sciarpe e nastri tricolori, e coccarde tricolori brillavano pure sul petto di quanti gremivano la sale.
L'animazione era al colmo.
Fu un'esplosione di popolare esultanza.
Le chiamate al Maestro e agli esecutori furono innumerevoli e, ad ogni nuova acclamazione, e quindi a ogni nuovo giungere dell'Autore sulla scena, le grida "Viva Verdi! Viva l'Italia" si alternavano intense, clamorose, incessanti".
Gli echi di questo pericoloso successo arrivarono in fretta alle orecchie dei censori austriaci.
Così che l'opera per passare i confini del Lombardo-Veneto dovettero cambiar titolo, da "Battaglia di Legnano" a "Assedio di Harlem".
Cambiando di conseguenza anche trama e personaggi: non più l'Italia, ma le Fiandre, non più il Barbarossa ma il Duca d'Alba.
Travestimenti inutili, il messaggio arrivò lo stesso.
Infine, dopo tanti infiammanti cori, a Verdi dobbiamo anche un Inno.
Come ricorda Franco Della Peruta nel saggio "Verdi e il Risorgimento", fu lo stesso Mazzini a chiedere al compositore, incontrato a Londra nel 1847, di scriverne uno invitando nel contempo Goffredo Mameli ad approntare dei versi capaci di diventare "la Marsigliese italiana".
Il testo, che come ritornello faceva: "Non deporrem la spada / finchè sia schiavo un angolo / dell'Italia contrada / finchè non sia l'Italia / una dall'Alpi al mar", venne inviato a Verdi che lo rimandò musicato a Mazzini con l'augurio che potesse essere cantato presto nelle pianure lombarde "fra la musica del cannone".
Prima dell'exploit risorgimentale verdiano sono da ricordare altri grandi compositori: Rossini, Bellini, Donizetti.
Al pesarese si deve in anticipo di oltre vent'anni il primo "manifesto" corale in grado di muovere entusiasmi patriottici.
nel 1818 al San Carlo di Napoli andò in scena "Mosè in Egitto".
La preghiera finale di Mosè trascina in coro il popolo ebraico in cerca di una patria: "Dal tuo stellato soglio / Signor ti volgi a noi / pietà dei figli tuoi / del popolo tuo pietà".
Versi di Andrea Leone Tottola, autore anche del libretto de "La donna del Lago" il cui "Coro dei bardi" ricorda il musicologo Philip Gossett, risuonava come proclamata per Pio IX, "redentore d'Italia".
Scavalcando in tal modo le ire della censura austriaca che, fedele alle radici cattoliche nulla poteva eccepire sull'elogio a un papa.
Giuseppe Verdi e il tenore Francesco Tamagno a Montecatini, estate 1899. Milano, Museo Teatrale alla Scala.
Quanto a Bellini, leggendaria rimane la prima della "Norma" alla Scala nel 1831.
I frequentatori del salotto della contessa Maffei, luogo d'incontro di mondanità patriottica, riferiscono di una serata scaligera alquanto movimentata: all'esplodere dell'impetuoso coro "Guerra! Guerra!" parte del pubblico scattò in piedi facendo eco, mentre le dame sventolavano fazzoletti dai palchi e il generale austriaco Giulay sfoderava la sciabola sbattendola sul pavimento.
Subito imitato dai suoi ufficiali, che presero a cantare "Sangue! Sangue!" al seguito del coro in scena e in un crescendo che sfiorò lo scontro fisico.
Quanto a Donizetti, il suo "Poliuto", nel 1838 non riuscì ad arrivare in scena al San Carlo di Napoli per l'intervento della censura borbonica e del re in persona, allarmati che la platea si riconoscesse nella vicenda dei cristiani votati al martirio.
Per cui l'opera dovette emigrare in Francia, dove andò in scena all'Opèra con il titolo "Les Martyrs".
Ma il culmine drammatico di tutti questi intrecci tra lirica e passione patriottica lo si ebbe il 25 luglio 1844, quando i Fratelli Bandiera e i loro sette compagni di lotta condannati a morte, si avviarono alla fucilazione intonando "Chi per la patria muor / vissuto è assai", versi del coro di un'opera di Mercante, "Caritea regina di Spagna", andata in scena alla Fenice nel 1826, ma che evidentemente aveva lasciato un segno profondo tra i giovani del tempo.
Quel mondo di fervori musical-risorgimentali fu ben colto da Luchino Visconti in "Senso", ispirato alla novella di Boito che si apre proprio su una serata all'opera.
Siamo nel 1866 alla vigilia della battaglia di Custoza.
Nel teatro veneziano danno "Il trovatore" di Verdi.
Per i patrioti in sala un appello all'insurrezione.
Per la contessa Serpieri (Alida Valli), ardente patriota, l'inizio dell'amore proibito per un ufficiale austriaco.