CESARE PAVESE: biografia e opere

Vita e opere di Cesare Pavese

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    Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese nelle Langhe, in provincia di Cuneo; qui il padre Eugenio, cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, ha un piccolo podere, il cascinale di San Sebastiano, che per tutta la sua infanzia sarà per Pavese la sede, mitizzata poi nel ricordo, delle sue vacanze estive. La madre, Consolina Mesturini, era figlia di commercianti benestanti di Ticineto: la primogenita Maria era nata nel 1902.

    Cesare-Pavese

    Malgrado l'agiatezza economica, l'infanzia di Pavese non fu felice: una sorellina e altri due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, fragile di salute, dovette affidare il bambino subito dopo la nascita a una balia. Suo padre morì il 2 gennaio 1914 di un cancro al cervello, quando Cesare aveva solamente cinque anni. La madre di carattere autoritario, dovette così allevare da sola i due figli impartendo loro un'educazione molto rigorosa, contribuendo indirettamente ad accentuare il carattere introverso di Cesare.

    Nell'autunno dello stesso anno in cui morì il padre, la sorella si ammalò di tifo e la famiglia fu costretta a rimanere a Santo Stefano Belbo dove Cesare frequentò la prima elementare; le altre quattro classi del ciclo le finì a Torino.

    Nel 1916 Consolina, non riuscendo più a sostenere la gestione dei mezzadri e soprattutto le spese, prese la decisione di vendere la cascina di San Sebastiano e di andare a vivere con i figli in una piccola villa che aveva comprato in collina a Reaglie, frazione del Comune di Torino.

    Pavese si iscrisse al liceo D'Azeglio nell'ottobre del 1923 e scoprì l'opera di Alfieri. Passò gli anni di liceo tra i primi amori adolescenziali e le amicizie con un gruppo di compagni, tra i quali Tullio Pinelli, amico al quale Pavese farà leggere per primo il dattiloscritto di Paesi tuoi e invierà una lettera di addio prima del suicidio.

    Nel 1926, conseguita la maturità liceale si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell'Università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l'inglese, appassionandosi alla lettura di Walt Whitman. Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea "Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman" con 108/110.


    Famiglia-Pavese





    Nel 1931 gli muore la madre; Pavese continua a vivere nella stessa casa con la famiglia della sorella Maria, sempre estraniato in se stesso, riluttante ad ogni confidente abbandono. Per guadagnare iniziò l'attività di traduttore in modo sistematico alternandola all'insegnamento della lingua inglese, nelle scuole serali.

    Iniziò a lavorare saltuariamente in vari istituti medi statali, ma poiché non era iscritto al partito fascista, dovette ripiegare sugli istituti privati. Per un compenso di 1000 lire tradusse Moby Dick di Herman Melville e Riso nero di Anderson. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca.

    Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese, malvolentieri, alle insistenze della sorella e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa che rimprovererà più tardi alla sorella Maria in una lettera del 29 luglio 1935 scritta dal carcere di Regina Coeli: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".


    Libri


    Continuava intanto l'attività di traduttore, che terminò solamente nel 1947. Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" alla quale dedicherà i versi di Incontro nella raccolta Lavorare stanca.

    Nel 1933 iniziò a lavorare, insieme a Carlo Levi, Massimo Mila, Leone Ginzburg e altri, alla casa editrice Einaudi. Nel 1934, grazie alla raccomandazione di Ginzburg, riuscì ad inviare ad Alberto Carocci, direttore della rivista Solaria, le poesie di Lavorare stanca che vennero lette da Elio Vittorini con parere positivo tanto che Carocci ne decise la pubblicazione.



    Nel 1935 venne arrestato poiché coinvolto in attività antifasciste: riceveva al proprio indirizzo lettere politicamente compromettenti, indirizzate ad una militante del partito comunista clandestino, con la quale aveva avviato una relazione. Condannato a tre anni di confino a Brancaleone, vi resta fino al marzo 1936. Pavese, in realtà, era innocente, poiché le missive trovate erano rivolte a Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" della quale era innamorato. Tina era però politicamente impegnata e continuava ad avere contatti epistolari con il precedente fidanzato; le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.


    pavese


    Il 4 agosto 1935 Pavese giunse quindi in Calabria, e qui scrisse ad Augusto Monti
    "Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un'inutile castità.

    Nell'ottobre di quell'anno iniziò a tenere quello che definì lo "zibaldone", un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere ( pubblicato postumo) le sue inquietudini che cominciano ad accentuarsi. Avendo presentato domanda di grazia, ottenne il condono di due anni.

    Nel 1936, durante il suo confino, venne pubblicata la prima edizione della raccolta poetica Lavorare stanca (nell’edizione di Solaria) che, malgrado la forma fortemente innovativa, passò quasi inosservata.

    Al ritorno dal confino, trovò che le sue poesie erano state ignorate e inoltre che la donna amata si era sposata: ne ricavò una delusione così cocente da fargli sfiorare il suicidio; questa esperienza sentimentale “traccerà nella sua esistenza un solco di incolmabile dolore, di disperata frustazione”. (L.Mondo).
    Per guadagnarsi da vivere riprese il lavoro di traduttore e nel 1937 accettò di collaborare, con un lavoro stabile e per lo stipendio di mille lire al mese, con la Einaudi per le collane "Narratori stranieri tradotti".


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    Dal 3 giugno al 16 agosto scrisse Paesi tuoi che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe.
    Nel 1943, dopo l'8 settembre, Torino venne occupata dai tedeschi e anche la casa editrice venne occupata da un commissario della Repubblica sociale italiana. Pavese, a differenza di molti suoi amici che si preparavano alla lotta clandestina, si rifugiò a Serralunga di Crea, un piccolo paese del Monferrato, dove la sorella Maria era sfollata: solitudine, esame di coscienza, dissidio tra desiderio e incapacità di legarsi agli altri (cfr. La casa in collina).

    Nel 1946 scriverà: Certo avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna (8 febbraio). Ogni sera, finito l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna le feroce gioia, il refrigerio d’essere solo. E’ l’unico bene quotidiano (25 aprile). (da Il mestiere di vivere)


    Libri


    Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell'avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val d'Ossola. Colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse nei versi del poemetto La terra e la morte e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti e poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista iniziando a collaborare al quotidiano l'Unità, dove conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori.

    Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946, come consuntivo dell'anno trascorso:
    Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?




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    Nel 1947 “Il compagno” vince il premio Strega: Pavese appare come un autore “impegnato”. Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, scrisse La casa in collina che uscì l'anno successivo insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l'ottobre del 1948 Il diavolo sulle colline, La bella estate nel 1949 e nel 1950 La luna e i falò.

    Il 16 agosto aveva scritto sul diario: Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò . La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti; al 18 agosto aveva chiuso il diario scrivendo: Tutto questo fa schifo . Non parole. Un gesto. Non scriverò più; da una lettera a Piero Calamandrei del 21 agosto: Quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rivela nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunzie della mia vita che oggi ne sono tramortito.


    Libri



    Il 17 agosto si suicidò in una camera d’albergo a Torino. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero. Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». All'interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, ”L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia” , una dal proprio diario, “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”, e “Ho cercato me stesso” . Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza commemorazioni religiose poiché suicida e ate



    Addio-Pavese





    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:00
     
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    Oltre l’ermetismo


    5-Cesare-Pavese




    Per certi aspetti l’attività e la figura di Pavese possono essere accostate a quelle di Vittorini: anch’egli contribuì con le sue traduzioni a creare verso gli anni ’30, il mito della letteratura americana; anche lui, lavorando nell’editoria, svolse un’opera di organizzazione di cultura meno vistosa di quella di Vittorini, ma non meno importante; anche lui con le poesie di Lavorare stanca, sembrò indicare vie diverse da quelle battute in quegli anni; anche lui con la militanza nel PCI cercò uno sbocco, sul piano dell’azione concreta, ai problemi culturali. Ma sul piano artistico vero e proprio la sua importanza è assai più notevole di quella di Vittorini: l’interesse di critica e di pubblico per la sua opera, sempre vivo, dimostra che il Pavese scrittore e il “testimone” più suggestive di quegli anni.

    mark2j
    In un periodo di pieno culto ermetico quando, come egli stesso scrisse, la prosa italiana era un colloquio estenuato con se stessa e la poesia un sofferto silenzio, Pavese imbocca una strada perfettamente antitetica: quella della poesia-racconto che si distenda in ampi ritmi narrative, adotti toni del parlato, faccia posto ad un mondo brulicante e vivo - le osterie, la campagna, le vie della città, la squallida periferia - contenga una certa component di polemica politica e definitivamente rompa col rarefatto solipsismo di tanta poesia contemporanea.


    Libri


    Ma queste solide realtà che sembrano dare una concretezza realistica e nuova alla poesia di Pavese ( la luce beffarda/ dei lampioni sul gran scalpiccio…; La collina di terra e di foglie…; Si va alla vendemmia/ e si mangia e sic anta: si va a spannocchiare / e si balla e si beve…) sono però fa prendere con molta cautela.

    mark2j
    C’è nella raccolta una notevole disparità di risultati dovuta all’accanito lavoro di ricerca, di sondaggio delle proprie possibilità cui Pavese si sottoponeva, ma una conclusione ci sembra legittima e cioè: nelle liriche più riuscite Pavese va oltre il dato naturalistico che sembra pur così evidente e la collina e la campagna e le strade della periferia sono assunte strumentalmente come spunti, come punti di partenza per un discorso che ritorna all’io che man mano che Pavese procede nella composizione, “ riafferma sempre più le sue ragioni” (L.Mondo). lo stesso autore dichiarò fra l’altro che quelle liriche esprimevano l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città. E così sono già sufficientemente presenti nella raccolta due temi di fondo che domineranno tutta la posteriore produzione di Pavese, cioè quello della solitudine e quello del mito. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:02
     
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    La solitudine e il mito




    Una situazione, una “figura” sono ricorrenti e tipiche nell’opera di Pavese: quella dell’espatriato, di colui che si è allontanato, sradicato dal proprio mondo, è andato in giro, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi, nel ritorno ai propri luoghi e nel rimpatrio, tenta ancora l’aggancio col passato infantile: dal protagonista della prima lirica (I mari del sud) della raccolta poetica a quello dell’ultimo romanzo: Anguilla de La luna e i falò. Condizione questa che, d’altra parte era sul piano biografico proprio quella di Pavese, sradicato dalle Langhe.

    Alla condizione di solitudine, alla impossibilità di avviare un colloquio con gli altri - derivante proprio da questa condizione di estraniato- si possono opporre come unica difesa il “paese” ( un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, dichiara Anguilla), il ricordo e i legami - in una dimensione che è nel contempo sentimentale e biologica - col mondo primigenio e autentico dei luoghi e dei tempi dell’infanzia. Tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà a venire… così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essa accadono cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

    Su questa idea del mito Pavese lavorò molto nell’intento di chiarificare quella che consapevolmente riteneva una componente di fondo della sua arte; la meditazione sul Vico, gli studi di etnologia, i suoi legami con l’irrazionalismo decadente convergono nell’elaborazione di questa sua idea-base secondo la quale in noi, in un aurorale contatto col mondo, si creano miti, simboli, che assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma definitive e determinante per il futuro: una sorta di memoria del sangue.
    Il mito cioè è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica… Esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo…



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    mark2j
    Il problema, certo, è assai complesso, ma dalle riportate citazioni si può trarre già una conclusione: quanto lontano sia Pavese, partendo da premesse del genere, da ogni finalità di realistica rappresentazione. Il compito dell’artista è quindi nella escavazione di questo fondo mitico primigenio e irrazionale, nel recupero dei suoi momenti esemplari, nel dare forma, parola a tutto ciò (l’arte moderna è, in quanto vale, un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia).
    Ed è significativo che, in piena battaglia per il neorealismo, Pavese sottolineasse questa dimensione evocative e lirica dell’arte, questa fondamentale importanza della parola che per lui è ben altro che strumento di mimetica registrazione, come per lui l’arte è ben altro che naturalistica rappresentazione dei fatti.


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    mark2j
    Da quanto si è detto si possono dunque enucleare due filoni di fondo da tener presenti come indicazioni-guida per la comprensione dell’opera di Pavese:
    1. La vita fatalmente ci stacca da mondo dell’infanzia, dai luoghi e dai miti in essa verificatesi ed ecco l’esperienza della solitudine, di un epidermico rapporto con gli uomini che non tocca le ragioni profonde del nostro essere, ecco la consapevolezza dell’estraneamento, del peso di vivere, dell’inaridirsi: come di un albero trapiantato in un terreno non adatto.

    Ma la solitudine di Pavese, pur se di chiara matrice decadente, ha un timbro tragico che nei testi esemplari della suddetta stagione letteraria mancava: non è sentita come blasone di nobiltà, come compiaciuta e aristocratica diversità dagli altri, ma come tragica incapacità di vivere -val la pena esser solo, per essere sempre più solo? - come bruciante problema che va posto e risolto: tuto il problema della vita è questo: rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri annota ne Il mestiere di vivere.

    Tutta la vita di Pavese è contrassegnata da questo supremo impegno, da questa ricerca di comunicazione- l’esperienza sentimentale perennemente vagheggiata e risoltosi sempre in frustrazione, la militanza politica volontaristicamente perseguita – che non trova però la sua realizzazione e approda anzi alla tragica confessione del fallimento.

    2.L’arte trarrà alimento ovviamente da questa condizione dell’uomo e metterà in luce l’elemento per così dire negativo, cioè la banalità e la non autenticità del vivere cittadino, ma soprattutto mirerà -e sarà questo il suo elemento “positivo”- al recupero dei miti dell’infanzia, alla espressione del loro potenziale simbolico. Il che vuol dire: scavo nella propria interiorità, alla scoperta delle radici del proprio essere, del proprio destino che, per le teorie del mito, si è determinato nell’infanzia. Da ciò nasce quella contrapposizione (città-campagna, Torino-Langhe) tipica di tanti libri di Pavese e il dialettico rapporto tra i due termini. (Milea)



    Libri







    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:03
     
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    Alcuni testi esemplari





    Le due componenti schematicamente indicate, si intrecciano con un vario prevalere ora dell’una ora dell’altra, in tutta l’opera di Pavese. Particolarmente dominante la prima ne La casa in collina.

    Nel romanzo - che descrive l’incapacità del protagonista, un inquieto intellettuale in perenne colloquio con se stesso, a partecipare alla vita degli altri che alla caduta del fascismo hanno scelto la lotta partigiana – coesistono la lucida diagnosi dei limiti della solitudine dell’intellettuale sentita come colpa e come vergogna e la ferma, dolorosa volontà di superarla.

    Ma la volontà di superamento non è superamento: e il significato del libro è proprio in questo dilemma non risolto.

    Ritorna, a pensarci bene, un tema che già Serra aveva affrontato nel suo Esame di coscienza: e le ultime pagine del romanzo sembrano indicare il prevalere del momento civile come unica strada che possa portare allo sbocco della dolorosa situazione.

    Nei racconti cittadini compresi ne La bella estate (Il sulle colline, Tra donne sole, La bella estate) e ne La spiaggia, da un lato il mito del ritorno all’infanzia, al mare, alle colline come àncora di salvezza contro quella inesorabile caduta che è la città e dall’altro la descrizione dell’asfissiante vita cittadina priva di autenticità si intrecciano con risultati altamente suggestive.

    Pavese si serve qui di un dialogato sapientissimo, divagante, ricco di accenni e di allusioni non per descrivere naturalisticamente dei caratteri ma per far sentire una condizione di intima solitudine pur in mezzo allo sfarfallante cicaleccio mondano, per illuminare ora un segreto rapporto con l’esterno, ora l’arcano fascino della collina piemontese avvolta nelle tenebre notturne. Ma è nell’ultimo romanzo -La luna e i falò- che il tema del ritorno (collegato, ovviamente, agli altri) dà i suoi esiti più alti.



    Libri


    La luna e i falò


    mark2j
    Il protagonista è un trovatello detto Anguilla, che è cresciuto sulle colline delle Langhe, allevato da una famiglia di contadini che lavorano le terre della Gaminella, podere vicino al Belbo. Ma, dopo aver imparato a sua volta a fare il contadino andando a lavorare alla Morra, altro podere della zona, Anguilla aspira a far fortuna e si imbarca per l’America. La fortuna la trova lavorando in modi diversi, ma la vita là non dev’ essere troppo bella e soprattutto la nostalgia del paese è troppo intense se Anguilla decide tornare. Torna infatti a rivedere le stesse contrade, incontra il vecchio amico Nuto col quale rievoca tutte le tappe e tutte le vicende della propria esistenza.

    Ma tante cose e persone sono ormai cambiate a cominciare proprio da Nuto: non va più per i paesi a suonare nelle bande col suo clarino: ora è un uomo maturo che fa il falegname; ed anche le cose che racconta, spesso con ritrosia, hanno un sapore diverso da quello degli anni della gioventù. C’è stata la Guerra di mezzo, la resistenza, i morti. Ed ancora c’è la miseria: più nera, sembra ora ad Anguilla. Il mezzadro Valino che lavora adesso sulla Gaminella, per fatica e miseria diventa crudele coi suoi, folle per la disperazione uccide, incendia, si impicca. Da quel furore si salva solo il giovane sciancato, Cinto, il ragazzo che Anguilla ha preso a frequentare per la nostalgia della sua infanzia, per una sorta di identificazione con lui.

    Ed altre esistenze ancora, legate al suo passato, si trascinano tristemente o si sono tragicamente concluse. Le tre ragazze della Mora, le padroncine di una volta tanto ammirate e vagheggiate, han fatto una triste fine: una mal maritata, un’altra morta per aborto e la più giovane - la bambina di allora-uccisa e poi bruciata dai partigiano come spia fascista.


    Libri


    mark2j
    Anguilla è, come tutti i personaggi di Pavese, uno che ritorna; ma il pellegrinaggio ai luoghi mitici dell’infanzia - vagheggiati da Pavese come la strada per attingere la pienezza del vivere e la consapevolezza del proprio destino - si risolve nella constatazione di quanto ormai è perduto per sempre: di tutto quanto, della Morra, di quella vita di noialtri che cosa resta)… Scomparse le persone, mutati i luoghi, crudele la realtà presente: al ricordo dei falò che Anguilla si è portato nell’anima nella sua solitudine Americana - i falò rituali ai quali i contadini nelle Langhe ricorrono per “svegliare la terra” - ora si sovrappongono altri falò: quello con cui i partigiani bruciano una delle figlie del sor Matteo, quello del Valino.

    Nemmeno la mitica infanzia nei suoi luoghi e nei suoi miti può offrire più l’àncora della salvezza. E qui allora il ricordo, come qualcuno ha notato, non è proustiano abbandono, vagheggiamento elegiaco, ma amarezza e sapore di cenere: Anguilla-Pavese. Oppresso dal passato e dal presente, deve constatare che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedrà morire, ritrovare la Mora com’era adesso.
    E’ la lucida e dolorosa constatazione della irrimediabile legge di morte che è connaturata alle cose dell’uomo: pochi mesi dopo Pavese suggellava col suo tragico gesto questa desolata conclusione.

    Quel dissidio - testimoniato dalla sua vita e dalla sua produzione - che con disperato alternarsi di cadute e di riprese aveva cercato di risolvere in vari modi (con l’impegno artistico, col lavoro, con la militanza politica) si concludeva con una sconfitta che assume, vista ora in prospettiva, valore di testimonianza: “nessuno più di lui - ha scritto il Sapegno - nell’orizzonte della nostra cultura così chiusa e proclive alle soluzioni più facili e tranquillanti, ha espresso quella fondamentale riluttanza alla vita, quell’interna lacerazione e preventiva consumazione di tutti gli affetti e gli ideali che la compongono, quella primordiale vocazione di morte, che è alle radici di tanta della nostra civiltà. E il fatto di avere raccolto in sé e bruciato fino in fondo nella sua persona tutte le esperienze e il tormento di una condizione decadente, basta a conferire a quel destino d’uomo un rilievo, una funzione storica che non sappiamo chi altri da noi potrebbe più degnamente impersonare”. (Milea)


    Libri





    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:04
     
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    LAVORARE STANCA


    Traversare una strada per scappare di casa
    lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
    tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
    e non scappa di casa.

    Ci sono d'estate
    pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
    sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
    per un viale d' inutili piante, si ferma.
    Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
    Solamente girarle, le piazze e le strade
    sono vuote. Bisogna fermare una donna
    e parlarle e deciderla a vivere insieme.
    Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
    c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
    e racconta i progetti di tutta la vita.

    Non è certo attendendo nella piazza deserta
    che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
    si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
    anche andando per strada, la casa sarebbe
    dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
    Nella notte la piazza ritorna deserta
    e quest'uomo, che passa, non vede le case
    tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
    sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
    dalle mani indurite, come sono le sue.
    Non è giusto restare sulla piazza deserta.
    Ci sarà certamente quella donna per strada
    che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.


    ( Lavorare stanca, 1936 - 1943)



    Libri




    mark2j
    La vicenda umana e la carriera artistica di Cesare Pavese sono tragicamente contrassegnate da una contraddizione non risolta: da un lato il senso angoscioso della propria solitudine, dall'altra il desiderio di superare tale condizione e la reiterata consapevolezza di non riuscire. Questo il dissidio – che in altri brani di Pavese troverà altre testimonianze – espresso in questa lirica che è una pagina veramente drammatica: sia per l'intensità poetica che la anima, sia per il complesso di sentimenti che suscita nel lettore il rapporto tra questi versi, di una spenta desolazione, e la tragica fine del suo autore che proprio in uno di quei pomeriggi che fino le piazze son vuote concluso nell'agosto del 1950, a Torino, la sua esistenza col suicidio


    mark2j
    METRICA E STILE. Versi liberi. In aperta contraddizione con l'ermetismo dominante Pavese realizza un tipo di poesia-racconto ripudiando come egli stesso dichiara, il frammento e quel linguaggio allusivo che troppo gratuitamente posa ad essenziale e realizza una poesia-racconto per la quale si crea un verso di ampio respiro con modulazione e andamento che possano far pensare alla ballata popolare o alle lasse epiche. (Milea)


    Libri





    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:05
     
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    MITO


    Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
    senza pena, col morto sorriso dell'uomo
    che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
    arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
    non saprà più dov'erano le spiagge d'un tempo.
    Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate,
    e negli occhi tumultuano ancora splendori
    come ieri, e all'orecchio i fragori del sole
    fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
    La montagna non tocca più il cielo; le nubi
    non s'ammassano più come frutti; nell'acqua
    non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
    pensieroso si piega, dove un dio respirava.
    Il gran sole è finito, e l'odore di terra,
    e la libera strada, colorata di gente
    che ignorava la morte. Non si muore d'estate.
    Se qualcuno spariva, c'era il giovane dio
    che viveva per tutti e ignorava la morte.
    Su di lui la tristezza era un'ombra di nube.
    Il suo passo stupiva la terra.

    Ora pesa
    la stanchezza su tutte le membra dell'uomo,
    senza pena, la calma stanchezza dell'alba
    che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
    non conoscono il giovane, che un tempo bastava
    le guardasse. Né il mare dell'aria rivive
    al respiro. Si piegano le labbra dell'uomo
    rassegnate, a sorridere davanti alla terra.


    ( Lavorare stanca, 1936 - 1943)



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    mark2j
    Da giovane dio a uomo: questo è l'itinerario di ogni umana creatura; cioè: dalle illusioni e dai sogni - che proiettati sulla realtà la mitizzano - alla consapevolezza, al morto sorriso che chi ha compreso. Dalla smisurata fiducia che ci fa sentire giovani dei, alla stanchezza che pesa su tutte le membra. E' un tema presente nella poesia di tutti i tempi, ma da Pavese rivissuto in questi versi con mirabile novità di accenti, con una straordinaria capacità di trasformare il tessuto logico-meditativo in immagini di stagioni e di sole e di nubi e di acque. Come gli antichi miti con le vicende di dei ed eroi fornivano una spiegazione dei fenomeni naturali, così fa Pavese: e così la dolorosa scoperta della realtà cioè il passaggio dal mito alla storia, dalle fiducie illimitate del giovane dio al morto sorriso dell'uomo, è descritto in una dimensione da mito naturale, diventa la montagna che non tocca più il cielo, il gran sole finito, le spiagge oscurate.

    mark2j
    METRICA E STILE. Versi liberi. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:06
     
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    NESSUNO SARA' FUORI DALLA GUERRA

    ( Prima che il gallo canti- 1948)



    mark2j
    Riportiamo il capitolo conclusivo de La casa in collina (il romanzo che assieme a Il Carcere costituisce il volume prima che il gallo canti ) nel quale in modo più evidente che in altre pagine del romanzo è visibile un tema che non solo ispira quest'opera, ma permea di sé tuttala produzione di Pavese. E cioè: lo scontro drammaticamente sentito e mai risolto tra desiderio di comunicazione e regressione nella propria intimità psicologica, nella ricerca di una propria mitologia dell' infanzia e della terra d'origine, in una parola nella propria solitudine.


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    mark2j Corrado, il protagonista, mentre i suoi compagni in seguito alla caduta del fascismo scelgono la strada dell'impegno e della lotta, si rifugia nelle native Langhe. Ma anche la mitica terra dell'infnzia non sfugge alla realtà storica: anche là arrivano la guerra e le lotte degli uomini, anche là i morti sparsi per la campagna costringono il protagonista a meditare sulla sua vita e sulla sua scelta. E allora proprio nelle Langhe vagheggiate come paese d'infanzia, di scappate, di giochi e che ora lo costringono a guardare in faccia la morte, il protagonista scopre che la sua vita è stata un lungo isolamento, una futile vacanza.

    mark2j
    due conclusioni si possono ricavare dal brano:

    a) la sconsacrazione della terra d'infanzia (la collina ) che sotto l'urgere della realtà perde la sua dimensione mitica e ne assume una dolorante di storia, di lotte, di sangue ( sarà il motivo di fondo de La luna e i falò );

    b) l'implicita - ma ad un certo punto del romanzo, esplicita - affermazione che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa e per qualcuno come dice Cate a Corrado rifacendosi ad un principio che egli stesso le aveva insegnato. E le lotte recenti e i morti - soprattutto i nemici morti – ripropongono ai vivi questo impegno.

    I due suddetti motivi, presenti in tutto il romanzo, si intrecciano drammaticamente nell'inclemente analisi, nel problematico soliloquio che occupa il protagonista e fanno di questo brano “un esame di coscienza di un letterato espresso in alcune fra le pagine più umane e commosse di Pavese”. (Milea)



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    XXIII.
    Niente è accaduto. Sono a casa da sei mesi, e la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre comincia a bloccare le bande; quest'inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche quella dell'anno passato e tapperà porte e finestre, ci sarà da sperare che non disgeli mai piú.

    Abbiamo avuto dei morti anche qui. Tolto questo e gli allarmi e le scomode fughe nelle forre dietro i beni (mia sorella o mia madre che piomba a svegliarmi, calzoni e scarpe afferrati a casaccio, corsa aggobbita attraverso la vigna, e l'attesa, l'attesa avvilente), tolto il fastidio e la vergogna, niente accade. Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari — spari isolati, come un tempo in stagione di caccia, oppure rosari di raffiche. Ora si vanno diradando. Quest'è davvero la vita dei boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso che soltanto l'incoscienza dei ragazzi, un'autentica, non mentita incoscienza, può consentire di vedere quel che succede e non picchiarsi il petto. Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo diritto e cocciuto dei ragazzi.

    E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri - noi non piú giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire,” - anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto, chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra - né i vigliacchi, né i tristi, né i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso. Tutti avremo accettato di far la guerra. E allora forse avremo pace.

    Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Non c'è stata - si capisce - l'allegria di tanti anni fa: troppa gente manca, qualcuno per sempre. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d'infanzia, di falò e di scappate, di giochi. Se avessi Dino qui con me potrei passargli le consegne; ma lui se n'è andato, e per fare sul serio. Alla sua età non è difficile. Piú difficile è stato per gli altri, che pure l'han fatto e ancora lo fanno.
    Adesso che la campagna è brulla, torno a girarla; salgo e scendo la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse questo racconto della mia vita. Dove questa illusione mi porti, ci penso sovente in questi giorni: a che altro pensare? Qui ogni passo, quasi ogn'ora del giorno, e certamente ogni ricordo piú inatteso, mi mette innanzi ciò che fui - ciò che sono e avevo scordato. Se gli incontri e i casi di quest'anno mi ossessionano, mi avviene a volte di chiedermi: “Che c'è di comune tra me e quest'uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore?”

    Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono sulle strade come cagne — mi dico perfino che non basta ancora, che per farla finita l'orrore dovrebbe addentarci, addentare noi sopravvissuti, anche piú a sangue — ma accade che l'io, quell'io che mi vede rovistare con cautela i visi e le smanie di questi ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subito, gli fosse soltanto accaduto davanti — faccenda altrui, storia trascorsa.

    Questo insomma m'illude: ritrovo qui in casa una vecchia realtà, una vita di là dai miei anni, dall'Elvira, da Cate, di là da Dino e dalla scuola, da ciò che ho voluto e sperato come uomo, e mi chiedo se sarò mai capace di uscirne. M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più.

    È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: “Avremo tempo le sere di neve a riparlarne”), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno.

    Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso, Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

    Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è “La smettessero un po'”, e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.

    Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: — E dei caduti che facciamo? perché sono morti? — Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero. (1947-48)


    La casa in collina. PDF


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:07
     
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    TUTTO CAMBIATO EPPURE UGUALE

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Dall'America dove ha fatto fortuna, Anguilla, ritorna per una breve vacanza alle sue Langhe, dove ha trascorso una misera infanzia di trovatello. Su questa “situazione” si innesta il motivo di fondo del romanzo: la ricognizione – fatta con l'animo dell'esule, dell'espatriato – dei luoghi dell'infanzia, paesaggi geografici e paesaggi dell'anima nel contempo, la ricerca dei colori e del senso di una terra mitica – la collina, i poderi, la stalla e le bestie – che nella anonima e disumana vita di espatriato l'”americano si è portato nel sangue.

    mark2j
    Ma il ritorno a quella terra, l'onda di memorie che i luoghi rivisti suscitano approda alla elegia e nel contempo alla tragedia: Certe volte mi chiedevo perchè, di tanta gente viva, non restassimo che io e Nuto, proprio noi... Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna... la le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più... non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso.

    Nemmeno i luoghi della memoria quindi sfuggono all'inesorabile legge del tempo. E a questa legge – amara ma pur naturale – dell'irrimediabile fine delle cose si aggiunge ancora dell'altro: la violenza della recente storia, i cadaveri che ancora affiorano in quella terra tra fango e pietre. L'ingresso brutale della storia distrugge il mito dei luoghi dell'infanzia che l'espatriato Anguilla-Pavese ha vagheggiato. (Milea)


    La luna e i falò PDF


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    Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse - aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l'occhio -, sembrava che ridesse, e stava invece attento.

    Dissi alle donne: - Allora vado a cercare il Valino -. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: - Muoviti. Va' a vedere anche tu.

    Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell'ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l'occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lì alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell'erba, avere aspettato nelle giornate d'inverno un po' di sereno per poterci tornare - neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto.

    Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti - quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

    Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n'era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall'aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo più scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch'io come lui, non bastava che gli parlassi così di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosi. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l'avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l'illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

    Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi più i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. - Ve ne ha lasciati? - chiesi. - Noi li avevamo già raccolti, - mi disse.

    Dov'eravamo, dietro la vigna, c'era ancora dell'erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n'era ancora. Poi gli chiesi se c'era sempre quel nido dei fringuelli sull'albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

    Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo - eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'allora.

    Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C'era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l'uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

    Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era più grande, c'era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d'oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste - dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne - e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C'erano delle case - palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli - che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all'albergo dell'Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d'estate, alla settimana; d'inverno, alla trottola sul ghiaccio.

    La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù - allora si vedeva, non c'erano quegli alberi - tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

    Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l'occhio, seduto contro la sponda
    - Ero un ragazzo come te, - gli dissi, - e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D'inverno quando non passavano più i cacciatori era brutto, perchè non si poteva neanche andare nella riva, tant'acqua e galaverna che c'era, e una volta - adesso non ci sono più - da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano più da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono più profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

    - Nella riva l'altr'anno c'era un morto, - disse Cinto.
    Mi fermai. Chiesi che morto.
    - Un tedesco, - mi disse. - Che l'avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...
    - Così vicino alla strada? - dissi.
    - No, veniva da lassù, nella riva. L'acqua l'ha portato in basso e il Pa l'ha trovato sotto il fango e le pietre...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:08
     
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    Il falò del Valino

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Collegabile al precedente, questo brano in modo più esemplare testimonia il duplice piano, di elegia e di tragedia, sul quella si sviluppa quella ricognizione del luoghi della memoria che costituisce il motivo portante de La luna e i falò.

    Il motivo elegiaco anzi, in tutta la prima parte del brano ha forse esiti più felici di tutto il romanzo con quella struggente domanda iniziale - Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri che cosa resta?- con quel susseguirsi di considerazioni che da quest’avvio si sviluppa.
    Ma il brano si conclude con un tragico colpo di scena: il Valino, il colono che ora lavora sul podere Gaminella (dove Anguilla ha trascorso l’infanzia e che varie volte è tornato a contemplare quasi alla ricerca di una stagione della sua vita) dopo aver dato fuoco alla casa e alle bestie si è impiccato nella vigna. E’ Cinto, il povero ragazzo sciancato, ora unico superstite, a darne notizia: e con questo tragico falò si chiude il capitolo che si era aperto coi toni di una dolente elegia.

    mark2j
    Anguilla, in giro per il mondo, si è portato nella memoria il ricordo di ben altri falò: quelli che i contadini accendono sul gerbido per svegliare la terra, secondo un’arcaica consuetudine, o sulle colline per solennizzare le feste paesane. Ma a questi falò, emblemi di una secolare religione agricola e immagine, nella sua memoria, della terra da cui si è allontanato si sostituiscono ora, nella realtà presente, quelli nati dalla disperazione (come quello del Valino) o dalla tragica violenza della storia ( come quello nel quale bruciava Santina, la più giovane delle padroncine della Mora, giustiziata come spia dei partigiani). Per Anguilla-Pavese il vagheggiamento del mito della collina , della terra d’origine non è più possibile.

    mark2j
    Ma vale la pena sottolineare che mentre ne La casa in collina la sconsacrazione di questo mito lasciava ancora adito a problemi che avevamo legami con la storia degli uomini, qui il vuoto lasciato dal crollo di quel mito non può essere in alcun modo colmato. Col suicidio che seguì di qualche mese la pubblicazione di questo romanzo, Pavese confermava tragicamente questa impossibilità.(Milea)


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    XXVI.

    Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perchè. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c'è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina - e un Nuto, un Canelli una stazione, c'è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna -, e nell'estate battono il grano, vendemmiano, nell'inverno vanno a caccia, c'è un terrazzo - tutto succede come a noi. Dev'essere per forza così.

    I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dаnno il grano all'ammasso, le ragazze fumano - eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così - quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l'osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

    Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo più visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi di là intorno, ai soci delle bocce, del pallone, dell'osteria, alle ragazze che facevamo ballare. Di tutti sapeva dov'erano, che cosa avevano fatto; adesso, quando eravamo alla casa del Salto e ne passava qualcuno sullo stradone, lui gli diceva con l'occhio del gatto: - E questo qui lo conosci ancora? - Poi si godeva la faccia e la meraviglia dell'altro e ci versava da bere a tutti e due. Discorrevamo. Qualcuno mi dava del voi. - Sono Anguilla, - interrompevo, - che storie. Tuo fratello, tuo padre, tua nonna, che fine hanno fatto? E' poi morta la cagna?

    Non erano cambiati gran che; io, ero cambiato. Si ricordavano di cose che avevo fatto e avevo detto, di scherzi, di botte, di storie che avevo dimenticato. - E Bianchetta? - mi disse uno, - te la ricordi Bianchetta? - Sì che la ricordavo. - Si è sposata ai Robini, - mi dissero, - sta bene.

    Quasi ogni sera Nuto veniva a prendermi all'Angelo, mi cavava dal crocchio di dottore, segretario, maresciallo e geometri, e mi faceva parlare. Andavamo come due frati sotto la lea del paese, si sentivano i grilli, l'arietta di Belbo - ai nostri tempi in quell'ora in paese non c'eravamo mai venuti, facevamo un'altra vita.

    Sotto la luna e le colline nere Nuto una sera mi domandò com'era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l'occasione e i vent'anni l'avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l'America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo s'era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato più di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare.
    - Ma non è facile imbarcarsi, - disse Nuto. - Hai avuto del coraggio.
    Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato. Tanto valeva raccontargliela.

    - Ti ricordi i discorsi che facevamo con tuo padre nella bottega? Lui diceva già allora che gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perchè la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... Qui alla Mora era niente, ma quand'ho fatto il soldato e girato i carrugi e i cantieri a Genova ho capito cosa sono i padroni, i capitalisti, i militari... Allora c'erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c'erano anche gli altri...

    Non gliel'avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent'anni e tante cose successe non sapevo nemmeno più io che cosa credere, ma a Genova quell'inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s'era spaventata, non aveva più voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere.

    Così avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava più. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno - cognato, passato padrone, non so, e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Così era stato, dissi a Nuto.

    - Vedi com'è, - disse lui. - Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

    - Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l'orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro - un rumore che sulle strade d'America non si sente più da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest'estate era finita.

    Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch'era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch'era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
    - Cosa c'è?
    Lì per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. - Proprio lui, figurarsi, - disse Nuto.
    - Ha bruciato la casa, - ripeteva Cinto. - Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...
    - Avranno rovesciato la lampada, - dissi.
    - No no, - gridò Cinto, - ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l'ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

    Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S'era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: - Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... E’ bruciato tutto, anche il Piola ha visto...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:11
     
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    FUMATORI DI CARTA


    Mi ha condotto a sentir la sua banda.
    Si siede in un angolo e imbocca il clarino.
    Comincia un baccano d'inferno.
    Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
    della pioggia fan si che la luce vien tolta,
    ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
    danno dentro stravolte, a suonare a memoria
    un ballabile. Energico, il povero amico
    tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
    rompe il chiasso sonoro, s'inoltra, si sfoga
    come un'anima sola, in un secco silenzio.

    Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
    contadine le mani che stringono i tasti,
    e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
    Miserabile sangue fiaccato, estenuato
    dalle troppe fatiche, si sente muggire
    nelle note e l'amico li guida a fatica,
    lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
    a menare una pialla, a strapparsi la vita.

    Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent'anni.
    Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
    Venne anch'egli a Torino, cercando una vita,
    e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare
    nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
    sulla propria fatica la fame degli altri,
    e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
    camminando, assonnato, le vie interminabili
    nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
    lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
    traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
    un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
    e sapeva cos'era lavoro. Accettava il lavoro
    come un duro destino dell'uomo. Ma tutti gli uomini
    lo accertassero e al mondo ci fosse giustizia.
    Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
    e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
    Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
    La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
    ne era tutta coperta. Sentivano in sè
    tanta disperazione da vincere il mondo.

    Suona secco stasera, malgrado la banda
    che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
    della pioggia e alla luce. La faccia severa
    fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
    Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
    col fratello, più triste di lui di dieci anni,
    vegliavamo a una luce mancante. Ii fratello studiava
    su un inutile tornio costruito da lui.
    E il mio povero amico accusava il destino
    che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
    a nutrire due vecchi, non chiesti.

    D'un tratto gridò
    che non era il destino se il mondo soffriva,
    se la luce del sole strappava bestemmie:
    era l'uomo, colpevole. Almeno potercene andare,
    far la libera fame, rispondere no
    a una vita che adopera amore e pietà,
    la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.

    ( settembre 1932 )


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    mark2j
    Lavorare vuol dire essere uomini; lavorare con gli altri e per gli altri è per molti un valore centrale della vita, tuttavia la funzione del lavoratore non è sempre riconosciuta in tutta la sua importanza; e d'altra parte, il lavoro non dà sempre soddisfazione, anzi talvolta diventa gravosa fatica, perchè pesante e mal pagato. Ciò è particolarmente vero in alcuni periodi, in cui forte è l'ingiustizia sociale, come negli anni Trenta, periodo in cui è stata scritta questa lirica di Pavese, il quale esprime la necessità di un riconoscimento anche sociale, della dignità del lavoro umano.

    mark2j
    Cesare Pavese fu uno dei pochissimi autori italiani che, anche durante il periodo fascista, compose liriche che avevano, più o meno indirettamente, una tematica politica e sociale: egli tocca soprattutto i temi della sconfitta del movimento operaio ad opera del fascismo e delle dure condizioni di vita degli operai e dei contadini sotto il regime. Queste tematiche vanno inquadrate nelle vicende politico-sociali degli anni Trenta, quando ormai la resistenza operaio e contadina al fascismo era stata del tutto stroncata e restavano in vita solo pochi movimenti clandestini. D'altra parte, in quel periodo, la politica economica di Mussolini, mirante a ridurre il costo del lavoro, e l'inflazione insieme alle ripercussioni della grave crisi economica mondiale (1929-1933) portarono ad un peggioramento della condizione dei lavoratori che, privati delle organizzazioni sindacali, non poterono in alcun modo tutelarsi.

    mark2j
    In questa poesia, scritta nel settembre 1932, dunque in piena epoca fascista. Pavese ci presenta con linguaggio semplice e immediato, la figura di un compaesano, già operaio a Torino, inchiodato dalle esigenze familiari, ad un lavoro insoddisfacente e mal pagato; ora che, con il fascismo, non è più possibile neppure la solidarietà di classe, il giovane trova la sua unica, vera possibilità di espressione nel suonare il clarino della banda.

    mark2j
    Cesare Pavese parte da un'esperienza semplice, comune: una sera passata ad ascoltare la banda del paese, i cui suonatori sono stati istruiti dal suo amico. Su questo punto iniziale egli poi inserisce una serie di sviluppi:
    a) considerazioni generali sui contadini che fanno parte della banda;
    b) primo flashback: le esperienze a Torino negli anni della giovinezza;
    c) secondo flashback: lo “sfogo” dell'amico sulla sua triste condizione.

    mark2j
    Pavese crea un modo nuovo di fare poesia, che egli stesso definisce poesia-racconto le cui caratteristiche sono: presenza di personaggi, narrazione di una vicenda, presentazione di un ambiente.
    Ancora Pavese diceva che la poesia deve fare riferimento alle “esigenze etiche (morali) e pratiche dell'ambiente in cui si vive.” il titolo Fumatori di carta è evocativo e aperto a più interpretazioni. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:12
     
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    IL NOME

    ( da Feria d'agosto, Torino, Einaudi )



    Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati -due -forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all'altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.

    Questo Pale - lungo lungo, con una bocca da cavallo - quando suo padre gliene dava un fracco scappava da casa e mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il padre era già all'agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava un'altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quella finestra scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle. Certe mattine mi svegliavo all'urlo lamentoso, cadenzato, di quella donna da quella finestra. Molte vecchie chiama- vano così i figli, ma il nome che faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le fucilate dei cacciatori, era quello di Pale. A volte anche noialtri si gridava quel nome per baldanza o per beffa.

    Credo che persine Pale si divertisse a urlarlo. Così, il giorno che salimmo insieme sulle coste aride della collina di fronte -prima, nelle ore bruciate, avevamo battuto il fiume e i canneti -non so bene se fossimo soli, io e Pale, certo che il mio socio aveva i denti scoperti e la testa rossa, e me ne ricordo perché gli raccontavo che il Ieone, che vive nei luoghi aridi, aveva i denti come i suoi e il pélo fulvo.

    Quel giorno eravamo agitati perché l'avevamo impiegato a fare una ricerca metodica della serpe. C'eravamo infradiciati fino al ventre e arrostita la nuca al sole; qualche rana era schizzata via da sotto le pietre rimosse, le mie caviglie erano tutte un livido. A Pale poi colava dai denti il sugo verde di un'erba che aveva voluto masticare. Poi, nel silenzio delle piante e dell'acqua, s'era sentito fioco, ma nitido, sul vento un urlo di richiamo.

    Ricordo che tesi l'orecchio, caso mai chiamassero me. Ma l'urlo non si ripetè. Lasciammo, poco dopo, la bassa del fiume e salimmo la costa, dicendoci che andavamo per prugnoli, ma ben sapendo - io, almeno, e il cuore mi batteva - che lo scopo questa volta era la vipera. Fu mentre salivamo il sentiero tra i ginepri che presi a parlare, imbaldanzito, dei leoni. Mi ero rimesso le scarpe, quasi a scongiurare con un gesto da bravo ragazzo i pericoli impliciti nella resa di conti serale. Fischiettavo.
    «Piantala. Non è così che si chiama la vipera», brontolò il mio socio, fermandosi. C'eravamo muniti di due verghe a forcella, e con queste dovevamo inchiodare la bestia e ammazzarla. Se anche nell'acqua eravamo andati in parecchi, sono certo che quel
    sentiero lo salimmo noi due soli. Pale - ben diverso da me -camminava scalzo sui sassi e sugli spini, senza badarci.

    Volevo dirglielo, quando d'improvviso si fermò davanti a un roveto e cominciò a sibilare piano piano, sporto in avanti, dondolando il capo. Il roveto usciva da uno scoscendimento roccioso, e di là si vedeva il cielo.
    «Era meglio se acchiappavamo la serpe», dissi, nel silenzio.
    L'amico non rispose, e continuò a sussurrare, come un filo d'acqua a un rubinetto. La vipera non usciva. Ci riscosse un clamore improvviso sul vento, qualcosa come un urlo o uno scossone. Di nuovo, dal paese, avevano chiamato: era la solita voce, lamentosa e rabbiosa: «Pale! Pale! ».
    Pensai subito ai miei di casa. Pale s'era fermato, a testa innanzi, dritto su una gamba sola, e mi parve che facesse una delle sue smorfie diaboliche. Ma ecco che il silenzio s'era appena rifatto, e di nuovo la voce - inumana in quel salto d'aria - strillò «Pale! Pale! » E fu allora che il socio gettò con rabbia il vincastro e disse in fretta: «Quei bastardi.

    Se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce ». «Vieni via», dissi con un filo di voce.
    La vecchia maledetta continuava a chiamare. Me la vedevo alla finestra, sbucare ogni tanto con un lattante in braccio e cacciare quello strillo come se cantasse. Pale mi prese un bel momento per il polso e gridò: « Scappa! » Fu una corsa sola fino alla piana; ci gridavamo.
    «La vipera!» per eccitarci, ma la nostra paura - la mia, almeno - era qualcosa di più complesso, un senso di avere offeso le potenze, che so io, dell'aria e dei sassi.
    Venne la sera e ci trovò seduti sui traversini del ponte. Pale taceva e sputava nell'acqua. «Prendiamo il fresco al balcone», dissi a Pale. Era quella l'ora che tutte le donne del paese cominciavano a chiamare questo e quello, ma per il momento c'era una pace meravigliosa, e si sentiva soltanto qualche grillo.

    "Non mi hanno ancora chiamato", pensavo; e dissi: «Perché non rispondi quando ti chiamano? Questa sera te le danno».
    Pale alzò le spalle e fece una smorfia. «Cosa vuoi che capiscano le donne».
    «Davvero, se la vipera sente un nome, poi lo viene a cercare?»
    Pale non rispose. A forza di scappare di casa era diventato taciturno come un uomo.
    «Ma allora il tuo nome dovrebbero saperlo tutte le serpi di queste colline».
    «Anche il tuo», disse Pale con un sogghigno. «Ma io rispondo subito».
    «Non è questo», disse Pale. «Credi che alla vipera importi se fai il bravo ragazzo? La vipera vuole ammazzare quelli che la cercano...»
    Ma in quel momento ricominciò l'urlo di prima. La vecchia s'era rifatta alla finestra. Cigolarono le ruote di un carro e s'udì il tonfo di un secchio nel pozzo. Allora m'incamminai verso casa, e Pale rimase sul ponte.


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    mark2j
    La narrazione, come spesso accade nei racconti di Pavese, inizia con un ricordo indeterminato (sottolineato da «mi pare», «forse» “può darsi”) Il verbo reggente (“non ricordo”) in fine di periodo dà particolare risalto alla negazione. Il titolo Il nome appare ambiguo e non suscita nel lettore precise aspettative. Dalla prim fase del racconto comprendiamo che la storia narrate viene proposta come un racconto dell’infanzia dello scrittore, legato a un soggiorno in campagna, il nome cui si riferisce il titolo è dunque quello di un compagno di giochi e d’avventure, un ragazzo di campagna fiero della propria libertà e “taciturno come un uomo”.

    mark2j
    La vicenda narrate appare una sorta di iniziazione all’avventura e al rischio, operata nei confronti di un ragazzo di città da parte del suo compagno di giochi, tanto più esparto e sicuro: nella caccia alla vipera si può infatti scorgere una volontà di sfida contro le forze ostili della natura, le potenze dell’aria e dei sassi”. L’avventura dei due ragazzi è però destinata a fallire, perchè contro di loro interviene il mondo degli adulti: la madre di Pale comincia a chiamarlo, diffondendo a gran voce il suo nome tra le colline. Nella mente fantasiosa del ragazzo, in apparenza così smaliziato, il riecheggiare del suo nome rende impossibile la cattura della vipera, perchè “se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce” . Il desiderio di totale libertà di Pale viene dunque limitato proprio dal suo nome, che lo rende riconoscibile dale creature che popolano le colline, non soggette invece ad alcuna limitazione

    mark2j
    E’ interessante considerare infine la chiusa del racconto, che mette in evidenza il differente comportamento dei due protagonisti: il ragazzo di città ritorna a casa per non disobbedire ai propri genitori, mentre il ragazzo di campagna prosegue la sua avventura, restìo ad ogni richiamo. Al termine della lettura, dunque, il significato del titotlo si chiarisce e diventa element importante per la comprensione della storia. (Milea)


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:13
     
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