CESARE PAVESE: biografia e opere

Vita e opere di Cesare Pavese

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  1. Milea
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    TUTTO CAMBIATO EPPURE UGUALE

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Dall'America dove ha fatto fortuna, Anguilla, ritorna per una breve vacanza alle sue Langhe, dove ha trascorso una misera infanzia di trovatello. Su questa “situazione” si innesta il motivo di fondo del romanzo: la ricognizione – fatta con l'animo dell'esule, dell'espatriato – dei luoghi dell'infanzia, paesaggi geografici e paesaggi dell'anima nel contempo, la ricerca dei colori e del senso di una terra mitica – la collina, i poderi, la stalla e le bestie – che nella anonima e disumana vita di espatriato l'”americano si è portato nel sangue.

    mark2j
    Ma il ritorno a quella terra, l'onda di memorie che i luoghi rivisti suscitano approda alla elegia e nel contempo alla tragedia: Certe volte mi chiedevo perchè, di tanta gente viva, non restassimo che io e Nuto, proprio noi... Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna... la le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più... non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso.

    Nemmeno i luoghi della memoria quindi sfuggono all'inesorabile legge del tempo. E a questa legge – amara ma pur naturale – dell'irrimediabile fine delle cose si aggiunge ancora dell'altro: la violenza della recente storia, i cadaveri che ancora affiorano in quella terra tra fango e pietre. L'ingresso brutale della storia distrugge il mito dei luoghi dell'infanzia che l'espatriato Anguilla-Pavese ha vagheggiato. (Milea)


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    Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse - aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l'occhio -, sembrava che ridesse, e stava invece attento.

    Dissi alle donne: - Allora vado a cercare il Valino -. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: - Muoviti. Va' a vedere anche tu.

    Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell'ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l'occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lì alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell'erba, avere aspettato nelle giornate d'inverno un po' di sereno per poterci tornare - neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto.

    Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti - quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

    Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n'era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall'aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo più scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch'io come lui, non bastava che gli parlassi così di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosi. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l'avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l'illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

    Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi più i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. - Ve ne ha lasciati? - chiesi. - Noi li avevamo già raccolti, - mi disse.

    Dov'eravamo, dietro la vigna, c'era ancora dell'erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n'era ancora. Poi gli chiesi se c'era sempre quel nido dei fringuelli sull'albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

    Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo - eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'allora.

    Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C'era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l'uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

    Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era più grande, c'era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d'oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste - dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne - e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C'erano delle case - palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli - che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all'albergo dell'Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d'estate, alla settimana; d'inverno, alla trottola sul ghiaccio.

    La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù - allora si vedeva, non c'erano quegli alberi - tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

    Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l'occhio, seduto contro la sponda
    - Ero un ragazzo come te, - gli dissi, - e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D'inverno quando non passavano più i cacciatori era brutto, perchè non si poteva neanche andare nella riva, tant'acqua e galaverna che c'era, e una volta - adesso non ci sono più - da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano più da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono più profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

    - Nella riva l'altr'anno c'era un morto, - disse Cinto.
    Mi fermai. Chiesi che morto.
    - Un tedesco, - mi disse. - Che l'avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...
    - Così vicino alla strada? - dissi.
    - No, veniva da lassù, nella riva. L'acqua l'ha portato in basso e il Pa l'ha trovato sotto il fango e le pietre...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:08
     
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