CESARE PAVESE: biografia e opere

Vita e opere di Cesare Pavese

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  1. Milea
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    Il falò del Valino

    ( da La Luna e i falò- 1950)



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    mark2j
    Collegabile al precedente, questo brano in modo più esemplare testimonia il duplice piano, di elegia e di tragedia, sul quella si sviluppa quella ricognizione del luoghi della memoria che costituisce il motivo portante de La luna e i falò.

    Il motivo elegiaco anzi, in tutta la prima parte del brano ha forse esiti più felici di tutto il romanzo con quella struggente domanda iniziale - Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri che cosa resta?- con quel susseguirsi di considerazioni che da quest’avvio si sviluppa.
    Ma il brano si conclude con un tragico colpo di scena: il Valino, il colono che ora lavora sul podere Gaminella (dove Anguilla ha trascorso l’infanzia e che varie volte è tornato a contemplare quasi alla ricerca di una stagione della sua vita) dopo aver dato fuoco alla casa e alle bestie si è impiccato nella vigna. E’ Cinto, il povero ragazzo sciancato, ora unico superstite, a darne notizia: e con questo tragico falò si chiude il capitolo che si era aperto coi toni di una dolente elegia.

    mark2j
    Anguilla, in giro per il mondo, si è portato nella memoria il ricordo di ben altri falò: quelli che i contadini accendono sul gerbido per svegliare la terra, secondo un’arcaica consuetudine, o sulle colline per solennizzare le feste paesane. Ma a questi falò, emblemi di una secolare religione agricola e immagine, nella sua memoria, della terra da cui si è allontanato si sostituiscono ora, nella realtà presente, quelli nati dalla disperazione (come quello del Valino) o dalla tragica violenza della storia ( come quello nel quale bruciava Santina, la più giovane delle padroncine della Mora, giustiziata come spia dei partigiani). Per Anguilla-Pavese il vagheggiamento del mito della collina , della terra d’origine non è più possibile.

    mark2j
    Ma vale la pena sottolineare che mentre ne La casa in collina la sconsacrazione di questo mito lasciava ancora adito a problemi che avevamo legami con la storia degli uomini, qui il vuoto lasciato dal crollo di quel mito non può essere in alcun modo colmato. Col suicidio che seguì di qualche mese la pubblicazione di questo romanzo, Pavese confermava tragicamente questa impossibilità.(Milea)


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    XXVI.

    Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perchè. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c'è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina - e un Nuto, un Canelli una stazione, c'è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna -, e nell'estate battono il grano, vendemmiano, nell'inverno vanno a caccia, c'è un terrazzo - tutto succede come a noi. Dev'essere per forza così.

    I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dаnno il grano all'ammasso, le ragazze fumano - eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così - quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l'osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

    Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo più visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi di là intorno, ai soci delle bocce, del pallone, dell'osteria, alle ragazze che facevamo ballare. Di tutti sapeva dov'erano, che cosa avevano fatto; adesso, quando eravamo alla casa del Salto e ne passava qualcuno sullo stradone, lui gli diceva con l'occhio del gatto: - E questo qui lo conosci ancora? - Poi si godeva la faccia e la meraviglia dell'altro e ci versava da bere a tutti e due. Discorrevamo. Qualcuno mi dava del voi. - Sono Anguilla, - interrompevo, - che storie. Tuo fratello, tuo padre, tua nonna, che fine hanno fatto? E' poi morta la cagna?

    Non erano cambiati gran che; io, ero cambiato. Si ricordavano di cose che avevo fatto e avevo detto, di scherzi, di botte, di storie che avevo dimenticato. - E Bianchetta? - mi disse uno, - te la ricordi Bianchetta? - Sì che la ricordavo. - Si è sposata ai Robini, - mi dissero, - sta bene.

    Quasi ogni sera Nuto veniva a prendermi all'Angelo, mi cavava dal crocchio di dottore, segretario, maresciallo e geometri, e mi faceva parlare. Andavamo come due frati sotto la lea del paese, si sentivano i grilli, l'arietta di Belbo - ai nostri tempi in quell'ora in paese non c'eravamo mai venuti, facevamo un'altra vita.

    Sotto la luna e le colline nere Nuto una sera mi domandò com'era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l'occasione e i vent'anni l'avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l'America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo s'era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato più di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare.
    - Ma non è facile imbarcarsi, - disse Nuto. - Hai avuto del coraggio.
    Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato. Tanto valeva raccontargliela.

    - Ti ricordi i discorsi che facevamo con tuo padre nella bottega? Lui diceva già allora che gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perchè la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... Qui alla Mora era niente, ma quand'ho fatto il soldato e girato i carrugi e i cantieri a Genova ho capito cosa sono i padroni, i capitalisti, i militari... Allora c'erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c'erano anche gli altri...

    Non gliel'avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent'anni e tante cose successe non sapevo nemmeno più io che cosa credere, ma a Genova quell'inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s'era spaventata, non aveva più voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere.

    Così avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava più. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno - cognato, passato padrone, non so, e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Così era stato, dissi a Nuto.

    - Vedi com'è, - disse lui. - Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

    - Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l'orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro - un rumore che sulle strade d'America non si sente più da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest'estate era finita.

    Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch'era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch'era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
    - Cosa c'è?
    Lì per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. - Proprio lui, figurarsi, - disse Nuto.
    - Ha bruciato la casa, - ripeteva Cinto. - Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...
    - Avranno rovesciato la lampada, - dissi.
    - No no, - gridò Cinto, - ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l'ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

    Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S'era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: - Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... E’ bruciato tutto, anche il Piola ha visto...


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    Edited by Milea - 10/5/2014, 09:11
     
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