ARTEMISIA GENTILESCHI (LA VITA) - I COLORI DELLO STUPRO

Il processo per stupro nel ‘600: il caso di Artemisia Gentileschi

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    ARTEMISIA GENTILESCHI
    I COLORI DELLO STUPRO


    (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 14 giugno 1653)


    Se fosse nata maschio, i libri di storia sarebbero pieni di pagine scritte dalla sua arte. Purtroppo, Artemisia Gentileschi è rimasta per secoli una voce silenziosa, una donna e un’artista dimenticata, sebbene avesse segnato il mondo della pittura del suo tempo in maniera superba. Fu così riscoperta e immolata sull’altare dei più grandi artisti di tutti i tempi solo nel dopoguerra del secolo scorso dalla critica femminista, che mise in risalto anche le sue qualità di donna combattiva e indomita. Questi particolari aspetti del suo carattere, frutto di una personalità molto forte, le consentirono di colorare la sua vita con lo stesso ardore con cui colorò le sue tele. Per lei fu impossibile discernere le vicende della vita dalla pittura, connubio che traccerà la sua immortalità di donna-artista illuminata e caparbia, che riuscì così a uscire dalle strettissime maglie di una società implacabile verso il sesso femminile...



    Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-39), Royal Collection, Windsor


    Per capire la grandezza e l’immenso talento artistico di una donna come Artemisia Gentileschi bisogna, in primo luogo, tornare idealmente indietro di qualche centinaio di anni, 419 per l’esattezza. In quegli anni la Storia la stavano scrivendo, insieme ai potenti dell’epoca, personaggi come Galileo Galilei, nel settore scientifico, Giordano Bruno e Tommaso Campanella in ambito filosofico, Paolo Sarpi in campo giuridico-politico e letterati come Giambattista Marino e Alessandro Tassoni. Dominavano la scena artistica le figure di Gian Lorenzo Bernini, Annibale Carracci e Caravaggio. Tutti uomini, sempre uomini, solo e soltanto uomini. Le donne, a quei tempi, non accedevano all’istruzione, non lavoravano ed erano destinate al focolare, all’educazione dei figli e alla cura della famiglia, unico universo a loro concesso da una società maschilista e repressiva. La loro realizzazione avveniva, quindi, solo attraverso il matrimonio, unico e principale obiettivo della loro vita. L’alternativa era il convento, dove si veniva spedite quando i familiari non riuscivano ad accasarle o per ragioni strettamente economiche o, peggio ancora, per domare la loro indipendenza di carattere. Inoltre, il clima soffocante della Controriforma, con la sua intolleranza e severità, scaturiva nel rigido controllo della Chiesa su tutta la vita artistica e intellettuale. Erano tempi in cui la Santa Inquisizione, attraverso una politica poliziesca di persecuzioni, strazianti torture e continue condanne a morte, operò una vera e propria strage nei confronti di chiunque avesse idee diverse da quelle delle gerarchie ecclesiastiche, incolpandoli di eresia o stregoneria per le donne.



    Susanna e i vecchioni, (1610), collezione Schönborn, Pommersfelden


    E’ in questo contesto storico e sociale, a luglio del 1593, che si affaccia alla vita, in una famiglia di artisti, Artemisia Gentileschi. Sin da piccola perde la madre e si lega al burbero padre Orazio, famoso pittore, che diventa per lei l’unico punto di riferimento, insieme ai suoi fratelli maschi dai quali, inevitabilmente, assorbe i comportamenti. Impara subito a relazionarsi al sesso maschile in modo assolutamente diverso dalle bambine della sua età, combattendo, difendendosi e lottando per non essere sopraffatta. Questa palestra di vita, iniziata in tenera età, le consentirà di forgiare il suo carattere, già di per sé indomito, e di affrontare le prove più dure della vita, restando femmina in tutta la sua essenza e dimostrando, cosa del tutto inaudita per quell’epoca, che la donna può essere determinata, coraggiosa, forte e combattiva al pari degli uomini Il suo percorso artistico inizia in tenera età, grazie alla fortuna di frequentare ambienti e personalità stimolanti nel campo della pittura e osservare da vicino molti dei capolavori di pittori come Caracci e Caravaggio. Il padre, Orazio Gentileschi dei Lomi, fu il primo ad essere colpito dal suo naturale e straordinario talento, così tanto da decidere, anacronisticamente, di trasmettere alla figlia il suo mestiere. Artemisia imparò presto a dipingere come un uomo, a mescolare i colori e a lavorare sulle impalcature, diventando l’alter ego di suo padre. Ancora ragazzina, aiutò Orazio a dipingere gli affreschi della loggetta del Cardinal Borghese e iniziò a sentire il bisogno di rendersi autonoma dalla figura del padre, con il quale ebbe sempre un rapporto tumultuoso e singolare. Chiese e ottenne di prendere lezioni di architettura e prospettiva da Agostino Tassi, che considerava un grande maestro in materia. La voglia di migliorarsi, di crescere artisticamente per uscire dall’ombra di suo padre e imporsi con un proprio stile personale, le costò un prezzo altissimo in termini di dolore, che ne condizionò tutta la vita. Aveva solo diciassette anni quando iniziò ad assimilare le virtù pittoriche del Tassi, partecipando con slancio agli insegnamenti del suo precettore, con la bramosia tipica di chi vuole apprendere appassionatamente, mettendosi nelle sue mani. L’infame pittore, notoriamente disturbato da una sessualità fallocentrica e già aduso a comportamenti violenti reiterati nei confronti delle donne, tradì la fiducia accordatagli da Orazio e dalla stessa Artemisia e approfittò sessualmente in maniera molto crudele della giovane pittora, lacerando per sempre la sua anima ed il suo corpo. Stuprata, vilipesa, stracciata, calpestata, si difese con tutta la rabbia di cui era capace, ma fu costretta dalla forza bruta del suo aguzzino a soccombere. E’ questo il momento in cui Artemisia viene chiamata ad affrontare la prova più dura della sua esistenza. L’efferata violenza di cui era stata vittima le provocò vergogna e, come sempre accade in questi casi, un senso di colpa, in ragione del quale, tenne per sé tutto il dolore e lo sconcerto terribile che annientava il suo essere donna, privo di gioia e di amore. Ma il suo spirito combattivo prevalse sullo sconvolgimento emotivo causato dalla furia bestiale del suo maestro e, dopo aver scoperto che Agostino Tassi era già maritato e che, per tale ragione, non poteva tener fede alla promessa di un matrimonio riparatore, confessò l’accaduto al padre, il quale, distrutto dall’offesa infamante subita, decise di denunciare il suo collega Tassi per stupro.



    Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613), Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli


    La giovane Artemisia Gentileschi affrontò senza paura l’ulteriore violenza del processo, nel quale fu costretta a lottare contro il folle concetto che la donna sia, in qualche modo, corresponsabile dello stupro subito e che possa aver sedotto o provocato l’uomo con atteggiamenti incauti. Da sempre, lo stupro è l’unico reato in cui, per sistema, viene messa in dubbio la parola della vittima e così, l’iter probatorio fu lunghissimo ed estenuante e richiese l’accertamento della verità che, secondo la giurisprudenza coeva, prevedeva l’uso della tortura. Pronta a tutto pur di ristabilire la verità, si lasciò applicare i ” sibilli” (cordicelle strette attorno alle dita), che avrebbero potuto invalidarla per sempre come pittrice e urlò forte la sua verità: « Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne». Nella triste vicenda giudiziaria, in cui venne duramente analizzata e denudata dai giudici e dagli sguardi morbosi dei presenti, provata profondamente dal tradimento delle persone vicine chiamate a testimoniare (che non le mostrarono solidarietà, neanche femminile), trattata pubblicamente alla stregua di una puttana dallo schifoso porco che l’aveva violentata, Artemisia Gentileschi si trovò sola a lottare, a chiedere giustizia e a difendere la sua dignità, subendo per questo enormi vessazioni e profonde sofferenze. La forte personalità della pittrice unita al suo impavido coraggio, al profondo anticonformismo e ad un marcato senso di giustizia, le consentirono di ottenere il risultato, assai eclatante per l’epoca, di vedere il suo stupratore condannato per aver abusato del suo corpo. Una vittoria dal sapore amaro, che contribuì, però, a edificare la fortezza inespugnabile del suo essere più profondo; una sorta di roccaforte psicologica, che la difese per tutto il resto della sua vita e le donò quel piglio irresistibile da guerriera. Con queste solide premesse, a soli vent’anni, iniziò così a dirigere la sua vita con un progetto ben preciso e con l’obiettivo principale di imporsi nel campo della pittura ai massimi livelli. Accettò, quindi, di buon grado il matrimonio riparatore con un pittore fiorentino, P. Stiattesi, che le così fu molto utile, soprattutto, a bloccare i pettegolezzi malevoli che giravano attorno alla sua persona nell’ambiente artistico romano.



    Giuditta con la sua ancella (1618-1619), Palazzo Pitti, Firenze


    Il nuovo status sociale le consentì di entrare negli ambienti funzionali alla sua realizzazione artistica e iniziare l’ascesa di pittrice con successo. A tal fine, si trasferì con il marito a Firenze, dove iniziò subito a costruire il suo futuro, intessendo rapporti con le famiglie più facoltose e importanti della città. L’amicizia con la granduchessa Cristina di Lorena le consentì di conoscere i suoi futuri committenti e i suoi più grandi estimatori: il granduca Cosimo II de’ Medici, Michelangelo Buonarroti il giovane, Galileo Galilei, Cristofano Allori e la famiglia Frescobaldi. Nel periodo fiorentino, Artemisia Gentileschi fu assolutamente padrona di se stessa, lavorò incessantemente, frequentò gli ambienti intellettuali, contrattò i prezzi delle sue opere, imparò a scrivere e, grazie al suo talento e alla sua fama crescente, venne ammessa all’Accademia del Disegno, stabilendo un primato storico di enorme importanza per una donna-artista. Nel frattempo, diventò madre di quattro figli (due morirono in tenera età). Il rapporto con il marito non fu mai sereno e felice, anche se supportato da stima reciproca e grande affetto; inoltre i coniugi ebbero grandi problemi economici, per via dell’alto tenore di vita che entrambi amavano condurre. La vera passione, la storia d’amore che durò fino alla morte, che la ricompensò pienamente del vuoto sentimentale vissuto e che le fece conoscere il piacere carnale, arrivò a quasi trent’anni e la travolse senza mai domarla completamente. Il suo amante, Francesco Maria Maringhi, appassionato di pittura e aristocratico di bell’aspetto, si innamorò perdutamente di questa straordinaria e affascinante donna-artista, ancora bellissima nonostante l’età e le gravidanze, con i capelli ramati, le guance piene, gli occhi profondi, la bocca carnosa e una deliziosa fossetta sul mento. La seguì ovunque, nei suoi continui spostamenti, da Roma a Venezia e, infine a Napoli, dove la morte li unì per sempre. Nel suo girovagare da una città all’altra, Artemisia ebbe, tra la platea di nomi illustri che apprezzeranno la sua pittura, esponenti di spicco come Cassiano del Pozzo, Simon Vouet, il viceré di Napoli e Carlo I d’Inghilterra. Fu ricercata nella corte pontificia, negli ambienti aristocratici e “reali” e in quelli artistici e intellettuali. Pertanto, Artemisia Gentileschi ebbe così ”il potere” ai suoi piedi, chinato davanti alla singolarità del suo talento, che prevalse sui limiti oggettivi e moralistici di quel tempo.



    Giaele e Sisara, (1620), Museo di Belle Arti di Budapest


    Le sue opere sono grandiose e raffinate; i temi sono spesso legati alle gesta di eroine bibliche, capaci di grandi imprese, le quali mostrano la loro forza, invertendo il concetto di virilismo, attraverso una sapiente rappresentazione, fatta di feroci chiaroscuri e di un’espressività impressionante in cui è la donna ad avere un ruolo di primo piano. Le ambientazioni, perlopiù drammatiche, sono dominate dalla scenografia, che, insieme alla luminosità e ai suoi effetti fantastici, conferiscono alle sue opere un grandissimo senso di teatralità. Artemisia ha assimilato il luminismo e il realismo del Caravaggio, unitamente alla personale interpretazione che ne fa il padre Orazio, riuscendo con grande maestria a creare uno stile proprio, sia tecnicamente, sia nella scelta dei temi. Il filo conduttore, in tutto il suo percorso artistico, è il disperato e continuo bisogno di raccontarsi intimamente e vendicarsi nei confronti dell’odiato virilismo, utilizzando la forza delle sue eroine: sensuali, orgogliose e molto muscolose. Così dipinse le varie Susanne, Maddalene, Giuditte, Cleopatre, e così dipinse se stessa nei suoi autoritratti, accedendo al linguaggio pittorico, per mezzo delle pulsioni radicali dell’odio e dell’amore, sublimate attraverso la sfida al maschio dominatore e la necessità di affermarsi come donna che si oppone alle radici culturali che la svalutano socialmente. Ma è, soprattutto, a Giuditta che Artemisia affida il compito di renderle giustizia della violenza subita da ragazzina, trasferendo in questa eroina la sua corporeità e il bisogno di comunicare il suo drammatico vissuto, quasi a voler evitare la cancellazione di sé come donna violata, conferendo all’immagine dipinta la capacità di parlare in luogo della parola scritta. Giuditta che decapita Oloferne riesce, insieme a Giaele e Sisara, a evocare e moltiplicare l’emozionalità dell’opera, intessendo il paradigma della sofferenza, dell’affermazione e dell’indipendenza con il brusco capovolgimento dei ruoli uomo-donna. Giuditta è piena di orgoglio mentre ammazza Oloferne, quasi impassibile di fronte al sangue che schizza sulle candide lenzuola ed estremamente decisa dalla straordinaria, quanto strana dolcezza del viso, a elaborare lo stupro e superarne tutte le conseguenze, trasformando il dolore in una dirompente carica di energia vitale. Altro particolare di non poco conto è che l’atto vendicativo viene attuato con l’aiuto di un’altra giovane donna, quasi a voler affermare la necessità della solidarietà femminile nel combattere la prevaricazione maschile e la sua identità basata sul dominio. Le opere di Artemisia Gentileschi sono cariche di passione e di emozione, rivelano, mettendolo a nudo, l’animo di una donna, che mai si è arresa agli eventi negativi, che ha saputo reagire con forza e determinazione, riuscendo a dirigere la sua vita fino a farne, come con le sue tele, un’opera d’arte eterna. Il linguaggio eversivo della sua pittura, legato alle immagini e derivante da esse, con i suoi sottaciuti messaggi, va organizzato in un discorso globale, attraverso una sorta di passeggiata sulla scia tracciata dal percorso professionale dell’eccellente pittora, che termina, a seguito di un processo di maturazione artistica e intima, con l’affermazione e il riconoscimento dello status di artista e donna libera. La modernità che deriva dal personale excursus della pittrice risiede nell’essersi guadagnata, anche se tardivamente, la fama di artista indiscussa, talmente completa, da non necessitare più dell’individuazione in un genere, né maschile, né femminile. L’arte, non ha genere, ed è propria dell’essere umano nella sua totalità.



    Conversione della Maddalena, (1615-1616), Palazzo Pitti, a Firenze


    Artemisia Gentileschi è un’artista bella, appassionata, talentuosa, forte, orgogliosa, coraggiosa, attiva, camaleontica, indipendente, lavoratrice, ottima imprenditrice di se stessa, guerriera e, soprattutto, artefice del suo destino. Artemisia ha condotto una vita tumultuosa, ha saputo ricominciare ogni volta, cambiando spesso città, contando solo sul suo talento e sul suo lavoro, ha lottato per la sua affermazione, non assimilandosi agli stereotipi sessisti e ai limiti morali della sua epoca, si è ribellata alla società maschilista e ha vissuto un grande amore, sfidando le convenzioni sociali e i pregiudizi. Artemisia non è stata, semplicemente, una femminista ante litteram, Artemisia è ancora oggi, a distanza di quattro secoli, un modello da seguire e incarna l’immagine chiara e precisa di come si è donne libere e femmine moderne. Il tentativo della storia di renderla “invisibile” è fallito miseramente.

    Lucretia_by_Artemisia_Gentileschi

    Lucrezia, (1621), Palazzo Cattaneo-Adorno di Genova


    Mariella Forleo
     
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