NEW YORK DOLLS (Album) - New York Dolls [1973]

Violenza e lascivia, graffi e rossetto

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    NEW YORK DOLLS
    New York Dolls


    1973 (Mercury)


    Violenza e lascivia, graffi e rossetto, nel fondamentale act delle bambole di New York

    New York, 1971. Tutto è pronto per la prima grande truffa del rock'n'roll...

    I precedenti sono tutti lì che attendono di essere mandati in orbita una volta per tutte: l'apatia alienata dei Velvet Underground e la ricerca tutta della grande stagione dell'underground suburbano, le depravazioni sesso-centriche degli Stooges e le scosse dinamitarde degli MC5, la lasciva rabbia dei Rolling Stones, le movenze marziane-femminee di David Bowie, la sfacciataggine di Marc Bolan. I protagonisti di questo straordinario act sono altrettanto pronti a farne un tutto-somma delle parti che resterà per sempre negli annali della musica popular. Dapprima ideuzza di un paio di compagni di college, Bill Murcia e Sylvain Sylvain, e quindi intricato e maledetto (e persino tragico) andirivieni di personaggi e musicisti, il gruppo - che per il nome trasse ispirazione da uno dei primi “ospedali per bambole” di New York - si stabilizzò attorno alla figura di Johnny Thunders, inizialmente maldestro e svogliato bassista e poi (complice un training tecnico e comportamentale di Sylvain), feroce, Hendrix-iano chitarrista solista. Poi David Johansen, un cantante che imbottiva di anfetamine le vocali e accartocciava con enfasi sovreccitata le consonanti; quindi la mitragliante sezione ritmica, il bassista “Killer” Kane e il nuovo batterista Jerry Nolan, in sostituzione del “maledetto” Bill Murcia. Questi, erano i primi, mitici New York Dolls...


    Già dalle prime esibizioni e dalle prime registrazioni, i cinque esibivano portamenti da mignotte, stivali dal collo vertiginoso, zeppe, lunghi abiti un po’ vamp un po’ caste dive degli inferi metropolitani, rossetto marcato e trucchi pesanti, capigliature folte e - manco a dirlo - variopinte, chilometri al di fuori del bon ton. Ciò che li distingueva dai precedenti era la spavalderia e l’implacabile, ambigua eppure ben esplicita unione di più dimensioni: testi delle canzoni, arrangiamenti, pose sul palco, sguaiato entusiasmo, irruenza spaventosa. Il glam appena nato, e così come lo si conosceva (promiscuità, androginia, mitizzazione, cliché assortiti), era già in una sorta di sballo da overdose. Ma ciò ancora non bastava: bisognava imprimere a fuoco il nuovo nome con una grande opera che fotografasse tutto questo prima che fosse troppo tardi. Quando - nel 1973 - i cinque travestiti entrano in studio per registrare il primo album ufficiale omonimo, cambiano la storia del rock. A supportarli alla produzione c’è un Todd Rundgren nel suo periodo d'oro (uno dei tanti che farà tesoro della lezione negli anni a seguire), ma la band ha ampio spazio di esibizione e di gestione. Quanto esce dalle session ha dello sconvolgente. Il disco definitivo mette nella turbina il lato più scioccante del rock duro fino ad allora ascoltato. Ciò che erutta dai solchi ha qualcosa d’inquietante, come se finalmente si fosse scoperto e portato a compimento un discorso, come se la sorgente di tanto disagio giovanile fosse stata finalmente scoperta. L’anthem d’attacco del lato A, probabilmente quello che rimarrà come il loro capolavoro, “Personality Crisis”, è lampante a dir poco, un proclama furibondo d’intensità Rolling Stones-iana che grida ai quattro venti una perversione tutta laida. Con le fucilate di “Vietnamese Baby”, il ritmo bellicoso di “Looking For A Kiss” (un sermone sconcio che fronteggia i morsi della chitarra distorta), la prima facciata è un monolite di violenza scomposta senza posa, interrotto solo dall’effemminata “Lonely Planet Boy”, l’altro lato della questione, l’unica concessione alla piacevolezza (intonata a mo’ di folksinger, con effetti in lontananza alla “Sunday Morning” e velluto di sax che la trasformano in profferta sessuale non meno provocante). In ogni caso, la devastazione sonica di “Frankestein” estremizza il discorso con un crescendo alla dinamite di fremiti via via più densi di tensione spasmodica, un’inarrestabile trenodia torbida, velenosa, tonitruante. La seconda facciata, con il suo subdolo barattare la violenza per l’inganno e la seduzione malefica, è anche più goduriosa. Tutto è perfetto, non c’è una virgola fuori posto in questi atti unici che prendono di petto qualsiasi argomento e qualsiasi spunto armonico (anche quelli volutamente banali). “Trash” è un’esplosione di coretti beat all’ennesima potenza, con ritmo baldanzoso e chitarre arroganti, il tutto portato avanti come sconcia danza pellerossa, sempre più sopra le righe. “Subway Train”, specie grazie al controcanto tenero e scontroso della chitarra di Thunders, è la zona demenziale dello spettro. “Private World” gioca la carta del calypso (con campanacci e piano alla Fats Domino), dove la chitarra - sempre più pornografica e “fallica” - fuoriesce dal magma di suono e “canta”, mentre canto e cori si limitano a biascicare un motto debosciato. Lo scettro di rock’n’roll più demonico della raccolta va a “Bad Girl”, il più feroce dialogo tra urla e schitarrate, un incrocio straniante tra le canzoni che si autorigenerano di Bob Dylan, le pallottole garage dei Sonics e la catarsi satanica degli Stooges. La "Pills” di Bo Diddley lo stempera in senso cantabile e corale (preconizzando il secondo album), ma con un effetto finale anche più conturbante. “Jet Boy” è l’anthem che chiude il cerchio: riff rotolante, batteria stentorea e implacabile, gradinate di battimani; è un hard-rock-muro di suono che, proprio in chiusa e per la prima e unica volta nel disco, apre a una jam strumentale, tutta costruita in velocità saettante. Per anni snobbato ed enormemente sottovalutato dalla critica (si permisero di salutarli come i fratelli scemi statunitensi dei Rolling Stones, un po’ come i Monkees per i Beatles), al punto che la loro avventura si concluse di lì a poco, con un ben inferiore “Too Much Too Soon” (titolo emblematico), è prima di tutto, il primogenito del “it’s better to burn out than to fade away”. Non proprio una truffa, perché questo attestato di rock androgino-erotico, questo amplesso perenne con l’ascoltatore, è fatto e suonato con l’anima. Sta nella vita. Scopre il primo casus belli del punk-rock, e uno dei temi fondamentali della contemporaneità: il sesso. Un diploma di laurea sulla rivoluzione dei costumi, espressa con rabbia, baldanza, e un eroismo sui generis. E starà nelle vite degli altri; le influenze non si contano: tanta seminalità si può comparare solo con il “Velvet Underground & Nico”. L’ovvio glam e neo-glam, l’ovvio punk, dalla sacra triade di Sex Pistols-Clash-Ramones alle pulsioni dei Dead Kennedys di Biafra, e infiniti altri, ma anche la new wave (newyorkese e non), e l’hard-rock di strada, da Guns N’Roses a Jane’s Addiction, all’hard-rock lascivo (prime tra tutte le Runaways). Ci sono poi influenze indirette, come se non bastasse, che emergono ad ascolti successivi dettagliati: “Trash” spalanca definitivamente le porte al power-pop; in “Frankenstein” si odono fitte persino noise-rock; “Subway Train” riecheggia il pop-core con dieci anni d’anticipo; in “Jet Boy” c’è già quasi l’affanno del primo Nick Cave. Todd Rundgren è più presenza intimorita che altro, ma in un’immagine ideale collega e trasforma e accorda il deus ex machina Andy Warhol (Velvet Underground) al burattinaio Malcolm MacLaren (Sex Pistols): quando si dice “corsi e ricorsi” della storia. Tanta importanza avrà un prezzo salato: una volta sciolto il gruppo, solo gli Heartbreakers di Thunders saranno in grado di proseguire il discorso con “L.A.M.F.”, per poi disperdersi di nuovo, colti un’altra volta dal “too much too soon”. I suoi dischi solisti sono solo dignitosi tentativi di farlo rimanere a galla, prima della morte per overdose. Le avventure stilistiche di David Johansen non hanno nulla a che vedere con il gruppo madre. Trapassato anche Jerry Nolan, i superstiti riavvieranno la saga New York Dolls in tempi recenti con ben due dischi di reunion (“One Day It Will Please Us To Remember Even This”, 2006, e “Cause I Sez So”, 2009), che valgono più che altro come la definitiva riabilitazione-consacrazione di un vero mito. (Fonte recensione: Ondarock)

    New York Dolls

    ASCOLTA L'ALBUM

    Pubblicazione - 1973
    Durata - 42:44
    Tracce - 11
    Genere - Hard rock
    Proto-punk
    Glam rock
    Glam punk
    Etichetta - Mercury Records
    Produttore - Todd Rundgren


    Tracce

    Tutte le tracce sono state composte da Johnny Thunders e David Johansen, eccetto dove diversamente indicato.

    Lato A

    Personality Crisis – 3:43
    Looking for a Kiss – 3:20
    Vietnamese Baby (Johansen) – 3:39
    Lonely Planet Boy – 4:10
    Frankenstein (Johansen, Sylvain Sylvain) – 6:00

    Lato B

    Trash (Johansen, Sylvain) – 3:09
    Bad Girl – 3:05
    Subway Train – 4:22
    Pills (Bo Diddley) – 2:49
    Private World (Johansen, Arthur Kane) – 3:40
    Jet Boy – 4:40


    Formazione

    New York Dolls

    David Johansen – voce, armonica a bocca, gong
    Arthur "Killer" Kane – basso
    Jerry Nolan – batteria
    Sylvain Sylvain – chitarra ritmica, pianoforte, voce
    Johnny Thunders – chitarra elettrica, voce

    Musicisti aggiuntivi

    Todd Rundgren – pianoforte, tastiere, sintetizzatore Moog
    Buddy Bowser – sassofono
    Alex Spyropoulos – pianoforte
     
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    Un punto di riferimento imprescindibile per tutto quello che, a venire, si collocherà fra punk e glam...

     
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    Il pilastro portante di un ponte che collega Velvet Underground e Stooges a Sex Pistols e Clash...

     
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