EDITH SITWELL - La nobildonna della poesia

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    “Cammino nei cieli oscuri”.
    Edith Sitwell, la nobildonna della poesia


    L’austero airone, divino nell’arte della sprezzatura, si mutò in una specie di corvo, dagli occhi piccoli, non privi di crudeltà, con un eccessivo piumaggio in gioielli. Le immagini di Edith Sitwell – che eccelleva nella posa, quasi che l’istante fosse un’ostia –, in età, rasentano il grottesco, sono straordinarie per insensatezza: in lei riluce un carisma che incenerisce; d’altronde era figlia di un baronetto, eletta col titolo di Dame, e in pubblico esordiva, “ho sempre avuto una grande affinità con la regina Elisabetta, siamo nato lo stesso giorno del mese, all’incirca alla stessa ora; da ragazza le assomigliavo molto”. Si credeva la monarca della poesia del XX secolo – un credo apocrifo, ma non del tutto errato –, dacché l’arte, in fondo, è una forma di tirannia.



    John Singer Sargent, The Sitwell Family, 1900


    Edith Sitwell amava farsi fotografare – il corpo è teatro ed è reato non adornarlo a festa, dando credito a una lamaseria di ombre – ed è stata il soggetto di diversi pittori. Nel quadro che raffigura The Sitwell Family, del 1900, John Singer Sargent la raffigura, tredicenne, di fianco al padre: è vestita di rosso, i capelli scarmigliati, lo sguardo rabbioso; dalla mano appoggiata sul fianco se ne deduce l’impazienza, un genio indocile. Ai piedi della madre, di spasmodica eleganza, i fratelli piccoli di Edith: Sacheverell e Osbert, entrambi scrittori, critici, devoti al bello. Più degli altri, Osbert amava il maniero di famiglia a Montegufoni, presso Firenze: è seppellito nel Cimitero degli Allori. Per sfizio, dal 1916, per un tot di anni, i fratelli Sitwell compilavano un’antologia, “Wheels”, con gli autori, a loro dire, più interessanti dell’epoca: pubblicarono Aldous Huxley, Wilfred Owen, Charles Orange, tra gli altri; e perfino Nancy Cunard, galvanizzata virago, ricchissima, che soffiò alla Sitwell l’amato – per davvero, per gioco? – Álvaro Guevara, artista cileno con un passato da pugile, cocainomane, violento.

    Insondabile Edith Sitwell: nei quadri di Roger Fry (Spolier) – membro di spicco del Bloomsbury – appare eterea, con mani flessuose, collo da nobile uccello di lago, il naso che vale una baronia, un blasone; nelle fotografie – sempre articolatissime – è imbronciata o astratta, in fogge eccentriche, al limite del lecito, “è che sono più viva della maggior parte degli altri”, diceva. Una immagine la blocca sul divano, con uno dei suoi copricapi esotici, mentre sorride fissando Marilyn Monroe, entrata nel suo esclusivo entourage: “mi piaceva perché la maltrattavano, perché sembrava un fantasma triste”.


    Il suo libro più noto, Façade, uscì un secolo fa, nel 1922: subito musicato da William Walton, fu un successo fin troppo eclatante. Edith Sitwell ha orecchio per il ritmo esasperato, per l’allusione e la metafora che sconcerta: le sue poesie trasfigurano i dati minimi della vita misera in un sovreccitato carnevale: è stata, in effetti, la sacerdotessa del modernismo. William Butler Yeats, nel suo Oxford Book of Modern Verse, la installa tra Ezra Pound e Thomas S. Eliot; Robert K. Martin ha scritto che “insieme al suo contemporaneo, Thomas S. Eliot, è una delle voci più importanti della poesia inglese del XX secolo”. In realtà, a parte la tardiva conversione – la Sitwell professò però fede cattolico-romana, con Evelyn Waugh a farle da ‘padrino’, nell’agosto del 1955 –, poco lega la poesia di “Dame Edith” a quella di Eliot: l’estro sapienziale, in lei, è sostituito dal delirio delle immagini, un tributo di specchi, dal lusso del patchwork e della clownerie, da un’ironia irata, da ritmi più lunatici e frenetici; non per caso, Edith amava l’opera di Dylan Thomas.

    Restò, come è ovvio, sola, perduta in amori impossibili – per Siegfried Sassoon, ad esempio, il poeta, omosessuale –; spese tutte le sue risorse – non poche – nella poesia, a finanziare artisti malmessi e imprese artistiche rivoluzionarie e dunque irreplicabili, per il gusto; durante un tour negli States amava mostrarsi come Lady Macbeth. Al netto dell’esibizionismo, leggere la Sitwell, i suoi versi di esibita sagacia, di disinibita scontrosità, è un’esperienza. Introducendo The Canticle of the Rose (1950), Edith riassume la sua missione così:

    Quando ho cominciato a scrivere, era ormai necessario un mutamento di rotta nelle icone, nelle immagini e nei ritmi della poesia, a causa della musica flaccida, dell’inerzia verbale, delle forme vuote, moriture, consuete di troppa lirica che andava per la maggiore”.

    In Italia – landa inadatta all’inconsueto – la Sitwell non ha sito: molti anni fa Bompiani ha pubblicato un romanzo, Sotto il sole nero (1954), che narra la vita di Jonathan Swift; Longanesi ha stampato la biografia della Regina Vittoria (1949); Rizzoli l’Autobiografia (1968) riproposta da SE come Una vita protetta (1989) nella traduzione d’autore di Margherita Guidacci; soltanto Guanda, quando era Guanda – cioè, quando era sotto tutela dei poeti e non dei mercanti – ha scommesso sulla sua poesia, con l’edizione del Il Cantico della Rosa, era il 1970. Oggi Edith Sitwell è pressoché scomparsa dal consesso editoriale. Ne sarebbe felice. Una certa schifiltosità è una dote quando l’oggi è questa palude dominata dai famelici, si addice ai saggi. La Sitwell, arcano airone, è trasvolata altrove: certe cose non ti vengono a trovare sul tetto di casa, devi cercarle.



    ***

    Elegia per Dylan Thomas

    Venere Nera della Morte, quale Sole di Mezzanotte
    giace, raddoppiato, tra le tue braccia, ebbro di gelo?
    Oh, cuore, immenso Sole delle Oscurità, tu scintilli

    per lei, solitario tra turbe
    di uomini avidi di fede, che a lei
    tributano inchini dopo lunghi vagabondaggi –

    gigantessa nera calma come una palma, vasta
    come l’Africa! Alla sua ombra egli giace
    eterno, per sempre infedele.

    ***

    Il ventaglio

    Amata Semiramide
    serra gli occhi obliqui:
    è morta da tempo.
    Dal suo ventaglio gorgheggiano
    piume di pappagallo, di fuoco,
    penne iridescenti, stridule come l’erba
    appena strappata, mentre passi
    tra i verdi declivi dell’Inferno
    frutti dall’odore armonico,
    uva come pioggia smeraldina
    dove la luna è ancora grassa
    meloni freddi, di vetro,
    accatastati sulle cabine dorate
    dalle guance lisce.
    Scimmie dai cappelli piumati
    dove sibila il calore, luminoso –
    volti sornioni di guerrieri di Nubia
    bocca annodata, occhio sinistro
    ascolti l’Arabo
    mentre fluttua il ventaglio.

    ***

    Quando il freddo dicembre…

    Quando il freddo dicembre
    congela in grigio
    le campane tintinnano sui dolci roseti –
    Svanisce all’improvviso
    ed è pelosa la neve
    come il guscio della mandorla –
    profuma di muschio.
    L’amigdalina della neve
    sotto la gelatina dove
    brillano stelle irsute
    simili a porcospini dorati –
    La neve confessa
    le piccole principesse
    su troni di sughero
    balla sotto le gonne.
    Registri la casistica
    di occhi che svolazzano obliqui –
    Esatta come lo zodiaco
    (Erodiade che danza)
    soltanto la neve striscia
    come mirra dorata –
    si nasconde tra i rami di rosa
    e le radici, intanto, si stirano.

    ***

    Ancora cadono le piogge

    Ancora cadono la piogge –
    oscure come il mondo dell’uomo, nere come la nostra perdita –
    cieche come i millenovecentoquaranta chiodi
    sulla Croce.

    Ancora cadono le piogge
    come pulsa il cuore che si forgia in battito di martello
    nel campo del becchino, suono di passi empi

    sulla tomba:
    ancora cadono le piogge

    nel Campo del Sangue dove si generano brevi speranze
    e cervello d’uomo ciba la propria avidità – verme con la fronte di Caino.

    Ancora cadono le piogge –
    e precipita il sangue dalla ferita dell’Affamato
    porta nel Suo Cuore ogni dolore – quello della luce che muore
    esimia esile scintilla
    nel corpo mutilato, la ferita del dolore incomprensibile, crudo,
    la ferita dell’orso ingannato
    che piange sotto assedio dei custodi
    franta carne indifesa… lacrime di lepre in fuga.

    Ancora cadono le piogge –
    eccole – le balze di Dio: qualcuno scollina su di me –
    guarda, guarda il sangue di Cristo che striscia lungo il firmamento
    fluttua sul Cranio che abbiamo inchiodato all’albero

    sprofonda nel morente, nel cuore che arde di sete
    tiene i fuochi del mondo – annerito dall’affanno
    come la corona d’allora di un Cesare.

    Risuona la voce di Colui che ama l’uomo:
    c’era una volta un bimbo che giaceva con le bestie…
    “Di continuo, amo, dissemino la luce innocente, il Sangue, per te”.

    ***

    Alla fiera

    I. Jack il Molleggiato

    Le foglie verdi, di legno, applaudono
    dotate di senso pratico, gravi,

    riparano i bimbi caramellati,
    le candele tremano, si afflosciano…

    la faccia dell’imbonitore è vera come un dado
    forme riflesse in un bicchiere

    d’acqua (glu, glu armeggia verbi il fantasma
    evocando uno spiraglio tra uno e l’altro).

    L’imbonitore s’impegna, è esigente,
    deve incapsulare una perla di polvere

    nell’universo, per paura che guadagni
    la propria libertà dal mio antro cervellotico.

    Ma la polvere spruzza semi che crescono in grazia
    dietro il mio volto intagliato nel legno, pieno di schegge

    come me, un burattino rosa salta
    sulle mie sorgenti, impara a pensare –

    come il fragile stelo d’oro di qualche
    stella dai lunghi petali, cammino

    nei cieli oscuri – rugiada buca
    i miei occhi, ne sento i brividi.

    II. La Scimmia guarda Zia Sally

    Le mele sono carne d’angelo
    le foglie nere brillano dolcificando

    il succo; frutti sempreverdi
    tra i fiori bianchi come il giorno –

    (Faccia d’angelo in corpo peloso:
    anima arroccata sulla carne, la giovane scimmia filosofeggia!)

    Su questo suolo incantevole e volitivo
    la Fiera gira, come il mondo,

    gli ignobili gettano monete nel capannone
    sulla testa striata di zia Sally –

    Dovrebbero gettare il sole
    la rotondità della luna per rendermi

    brillante come una moneta d’oro…
    non possono allontanare la loro ombra oscura da qui!

    Edith Sitwell

     
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