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    Maurice Denis
    Omaggio a Cézanne
    (Hommage à Cézanne)
    1900
    Olio su tela
    182 x 243.5 cm
    Parigi, Musée d'Orsay


    Questo quadro è un vero e proprio proclama. Nel negozio del mercante d'arte Ambroise Vollard, Maurice Denis raduna alcuni dei suoi amici artisti ed esponenti della critica per celebrare Paul Cézanne, la cui figura viene evocata dalla natura morta appoggiata sul cavalletto. Questo quadro, intitolato "Compostiera, bicchiere e mele" era appartenuto a Paul Gauguin il quale è a sua volta inserito tra le figure tutelari alle quali Denis rende omaggio; in effetti, sullo sfondo, si scorge una sua opera posta accanto ad una di Pierre-Auguste Renoir.


    Anche ad Odilon Redon viene riservato un trattamento d'onore: è raffigurato in primo piano, sull'estrema sinistra ed è proprio verso di lui che sono rivolti quasi tutti gli sguardi dei presenti. È intento ad ascoltare Paul Sérusier che gli sta di fronte. Da sinistra a destra, sono riconoscibili Edouard Vuillard, il critico André Mellerio che indossa il suo cappello a cilindro, Vollard proprio dietro il cavalletto, Maurice Denis, Paul Ranson, Ker-Xavier Roussel, Pierre Bonnard che fuma la pipa e, per ultima, Marthe Denis, giovane moglie del pittore. Una parte della generazione di artisti nabis è raffigurata in questa composizione che continua la serie, inagurata da Fantin-Latour, di tele dipinte per celebrare i grandi artisti, basti pensare a "Uno Studio a Batignolles" conservato anch'esso al Musée d'Orsay di Parigi.




    Paul Cézanne
    Compostiera, bicchiere e mele
    (Compotier, verre et pommes)
    1879-1880
    Olio su tela
    46 x 55 cm
    New York, MoMA



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    Henri Fantin-Latour
    Uno Studio a Batignolles
    (Un atelier aux Batignolles)
    1870
    Olio su tela
    204 x 273 cm
    Parigi, Musée d'Orsay

    Personaggi rappresentati:

    Édouard Manet Edit this at Wikidata
    Zacharie Astruc
    Otto Scholderer
    Pierre-Auguste Renoir
    Émile Zola
    Edmond Maître
    Frédéric Bazille
    Claude Monet
    Minerva




    Nel 1901, in occasione della presentazione di questa opera Parigi e a Bruxelles, Maurice Denis ricevette un'accoglienza ostile. Il pittore annotò sul suo Diario "è un quadro di fronte al quale il pubblico ride ancora". André Gide, scrittore, (premio Nobel per la letteratura nel 1947) ed amico di Denis chiese di acquistare la tela e la custodì fino al 1928, anno in cui la suddetta opera venne donata al museo del Luxembourg; la tela è conservata al Musée d'Orsay dal 1977. (Mar L8v)


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    Karel Dujardin
    Una donna e un bambino con gli animali in un guado
    (A Woman and a Boy with Animals at a Ford)
    1657
    Olio su tela
    37.7 × 43.5 cm
    Londra, National Gallery


    All'ombra di una ripida scogliera, una donna e un bambino guadano l'acqua bassa di un ruscello. La donna guarda il bambino mentre fa la pipì nel fiume. Forse hanno affrontato un lungo viaggio caldo sul mulo, la cui sella è di legno, dura e inflessibile. Gli animali aspettano pazientemente o si chinano per bere. Una pecora - la cui lana è dipinta con la consueta attenzione di Karel Dujardin per la consistenza realistica - è visibile attraverso le gambe del mulo.


    La figura della donna è diversa da tutte le altre contadine italiane raffigurate da Dujardin nelle sue opere; era solito dipingerle vestite in modo ordinato e pulito, con una camicia a collo aperto sotto un corpetto stretto (si veda "Una donna con bestiame e pecore in un paesaggio italiano" o "Animali della fattoria con un ragazzo e una mandriana"). La donna si è allentata gli indumenti per godersi il sole e tiene sollevata la gonna per tenerla fuori dall'acqua, spensierata e rilassata per qualche minuto - anche se non ha dimenticato il bambino che si volta per osservarla.





    Karel Dujardin
    Una donna con bestiame e pecore in un paesaggio italiano
    (A Woman with Cattle and Sheep in an Italian Landscape)
    1650-1655
    Olio su rame
    22.6 × 29.4 cm
    Londra, National Gallery



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    Karel Dujardin
    Animali della fattoria con un ragazzo e una mandriana
    (Farm Animals in the Shade of a Tree, with a Boy and a Herdswoman)
    1656
    Olio su tela
    34.6 × 39.7 cm
    Londra, National Gallery



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    Karel Dujardin
    La conversione di San Paolo
    (The Conversion of Saint Paul)
    1662
    Olio su tela
    186.7 × 134.6 cm
    Londra, National Gallery


    Nel XVII secolo, le immagini di piccoli ragazzi nudi rappresentati in scene analoghe a questa non destavano scandalo visto che spesso erano abituati a fare i loro bisogni da soli. La più famosa è forse la fontana del Manneken Pis a Bruxelles, che raffigura un vivace bambino di due o tre anni mentre fa la pipì. La differenza sostanziale in questa immagine è l'età del bambino; sembra molto più grande, forse otto o nove anni, con gli arti forti rispetto a quelli paffuti di un fanciullo.


    Il quadro di Dujardin ha un tema pastorale, molto apprezzato e ricercato dai collezionisti olandesi, che portavano immagini idealizzate della vita rurale nella loro vita frenetica e affollata della città. Le scogliere alle spalle sono rocciose e inospitali, ma l'acqua è fresca e rigenerante: il sentiero polveroso alle spalle del gruppo è già dimenticato. Dujardin mostra un momento affascinante e delicatamente divertente della vita campestre, ma di una realtà italiana piuttosto che olandese.


    Dujardin si concentrò sui paesaggi, ma dipinse anche ritratti, soggetti allegorici e scene bibliche (come "La conversione di San Paolo"). Ma parve sentirsi a proprio agio esclusivamente raffigurando scene rurali, che ritraggono la campagna romana come un'ambientazione idilliaca per la vita agreste. Non sappiamo con certezza se si sia recato in Italia negli anni della formazione, ma sappiamo che conosceva il lavoro di altri artisti che vi avevano trascorso del tempo e che usava i loro schizzi e dipinti come base per la sua interpretazione del paesaggio. In questo quadro, l'artista coniuga il terreno accidentato delle montagne italiane con il cielo azzurro e limpido e le nuvole gonfie dei Paesi Bassi, e facendo risuonare la luce che cattura le teste della donna e del bambino con il sole che cattura le rocce sopra di loro. (Mar L8v)

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    "Marilyn in arrivo all'aeroporto di Chicago il 17 marzo 1959"

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    "Marilyn fotografata da Milton Greene, 1958"

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    "Marilyn interpreta Cherie nel film "Bus Stop".
    Cherie è una cantante da saloon dolce e senza talento. "

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    Moby Dick,
    la storia della balena bianca che ha terrorizzato i marinai




    Il capolavoro di Herman Melville, una delle più grandi opere nella storia della letteratura…





    Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville, è una delle più grandi opere nella storia della letteratura. Non è solo la storia di un uomo contro una gigantesca balena bianca, ma è un romanzo dal significato molto più profondo. Il romanzo di Melville, scritto nel 1851, probabilmente si ispira ad una storia realmente accaduta.

    Moby Dick, come è nato il lavoro di Herman Melville

    Secondo alcune fonti, lo scrittore Herman Melville prese spunto da un evento accaduto in Cile. Nel 1810 una tremenda balena imperversava nel mare del Cile, nei pressi dell’isola di Mocha. L’enorme animale marino è stato battezzato Mocha Dick dai marinai, e continuò a seminare morte fra i suoi persecutori fino al 1859, anno in cui cedette agli arpioni di una baleniera svedese.

    Moby Dick non può essere considerato semplicemente un racconto d’avventura, è sicuramente di più. Tra le sue pagine emergono le caratteristiche di un trattato filosofico, un monologo, il dialogo interiore di un marinaio che per tre lunghi anni è solo, con i suoi compagni, sulle sperdute acque che formano gli oceani del nostro globo. La possiamo considerare anche un’opera oratoria, con ispirazioni bibliche e Shakespeariane. L’opera è un diario di bordo che riporta l’attesa di un uomo che aspetta l’occasione giusta. L’attesa di un evento, di qualcosa di grande, immenso, sconosciuto e desiderato.


    Le interpretazioni di Moby Dick

    Moby Dick può sostenere numerose, se non apparentemente infinite, letture generate da molteplici approcci interpretativi. Uno dei modi più fruttuosi per apprezzare la complessità del romanzo è attraverso i nomi che Melville ha dato ai suoi personaggi, molti dei quali sono condivisi con figure delle religioni abramitiche.

    Fin dalla prima riga notiamo i riferimenti biblici. Il primo è Ismaele, voce narrante dell’opera. Anche Achab è un nome biblico. Secondo la Bibbia ebraica, era un re malvagio che condusse gli israeliti a una vita di idolatria. L’Achab di Melville è ossessionato da Moby Dick, un idolo che provoca la morte del suo equipaggio.

    La nave che salva Ismaele, la Rachele, prende il nome dalla madre di Giuseppe , nota per aver interceduto per proteggere i suoi figli. È Rachele, come raffigurata nel Libro di Geremia , che convinse Dio a porre fine all’esilio imposto alle tribù ebraiche per idolatria. Il salvataggio di Ismaele da parte della Rachel in Moby Dick può quindi essere letto come il ritorno da un esilio causato dalla sua complicità (perché era sul Pequoddell’equipaggio) nell’idolatria della balena di Achab. L’uso di questi nomi da parte di Melville conferisce al suo romanzo un ricco strato di significato aggiuntivo.

    Il simbolismo

    Moby Dick è un simbolo del leviatano biblico, a cui si fa riferimento nei libri di Giobbe e dei Salmi. Il leviatano è un mostro di grandi dimensioni che non può essere sconfitto dall’uomo, che è anche il modo in cui Moby Dick è caratterizzato nella storia. Entrambi sono simboli della forza indomabile della natura.

    Ismaele discute il simbolismo in Moby Dick nel capitolo 42, “La bianchezza della balena”. In questo capitolo Ismaele riflette sul simbolismo del colore bianco. Riconosce le connotazioni positive del colore come simbolo di purezza, onore e giustizia. Successivamente sottolinea che può esaltare la bellezza di qualcosa, come si vede nell’albatro, simbolo di buona fortuna per i marinai, o nella lucentezza che dona il colore per esaltare il valore di una perla.

    Tra le altre cose degne di nota, Ismaele sottolinea “l’innocenza delle spose, la benignità dell’età” associata al colore bianco. Si spinge fino a esprimere l’idea del fardello dell’uomo bianco, per cui era la chiamata dell’uomo bianco a civilizzare le altre razze, considerando il bianco come “dare all’uomo bianco il dominio ideale su ogni tribù oscura”.

    Ismaele sostiene che il colore bianco porti anche la natura opposta, quella di qualcosa di ossessionante come uno spettro o un fantasma (e anche individui con albinismo, che crede ispirino paura immediata). Si dice che il colore bianco porti tutti i colori dello spettro visibile, eppure dà anche il senso di completa assenza. Ismaele afferma che “con la sua indefinitezza oscura i vuoti e le immensità senza cuore dell’universo”. Questo illustra la paura dell’ignoto, della solitudine e della separazione. È una qualità soprannaturale attribuita a Moby Dick.

    Ismaele scopre che la balena è una potente forza della natura, che gli umani hanno a lungo combattuto e cercato di conquistare. La caccia alla balena simboleggia anche un’interpretazione del posto dell’uomo nella natura, o se, come alcuni pensano, l’uomo debba regnare sulla natura domandola o conquistandola. Alcuni credono che l’uomo debba cercare di capire la natura. Altri, come Achab, cercano di distruggerlo a tutti i costi. Per il capitano Achab, la balena bianca simboleggia tutto ciò che c’è di male nel mondo e, quindi, deve essere distrutta. Ismaele, tuttavia, non è convinto che la balena bianca sia particolarmente spaventosa, o che il suo colore bianco sia ciò che la rende intrinsecamente scoraggiante.


    Edited by Lottovolante - 9/8/2022, 16:15
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    “Continua a sorridere perché la vita è una cosa bellissima e c'è così tanto di cui sorridere.”

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    60 anni fa moriva Marilyn Monroe:
    la donna che l'amore del mondo non ha saputo salvare


    Nella notte tra il 4 e il 5 agosto di 60 anni la diva fu trovata senza vita nel suo letto uccisa da un mix di barbiturici e droghe ipnotizzanti. Da quel momento l'icona è entrata nel mito, cristallizzata in un eterno presente. E oggi celebrata con una serie iniziative in suo onore in tutto il pianeta

    Erano le 3.30 circa della mattina della notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, quando Eunice R. Murray, governante e amica di Marilyn Monroe, attraversando per caso il corridoio, si accorse che la luce nella camera da letto dell’attrice era accesa. Bussò, la chiamò, ma non ottenendo alcuna risposta, decise di chiamare lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Questi arrivò di corsa, insieme al medico della diva, Hyman Engelberg, ma una volta entrati nella stanza non poterono che constatarne la morte. «Avvelenamento acuto da barbiturici», appurò poi l’autopsia condotta da Thomas Noguchi, vice-coroner del dipartimento di polizia di Los Angeles. E il caso fu archiviato come suicidio.

    Fu così - stando alla versione ufficiale - che, a 36 anni, morì Norma Jean Mortenson. E Marilyn Monroe entrò nel mito.



    Oggi la bionda per eccellenza (il docufilm evento di Netflix del prossimo autunno sulla sua vita si intitola proprio Blonde) avrebbe 96 anni e non sappiamo se avrebbe mai vinto un Oscar, se avrebbe avuto dei figli o se avrebbe mai trovato il vero amore. Ma non sappiamo soprattutto se l’evoluzione dell’America nei decenni successivi avrebbe contribuito a donarle quella felicità e stima di sé che un’infanzia infelice le aveva fatto mancare per tutta la vita.

    Cresciuta senza padre e con una madre con seri problemi psichici, Norma Jean è stata sempre alla ricerca di qualcosa che riempisse il vuoto che sentiva dentro. Il cinema, la celebrità, la stessa Marilyn in qualche modo lo avevano riempito: «Spesso ho una strana sensazione», disse una volta, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Appartenevo al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro».



    Ma la celebrità e l'amore del pubblico non le bastavano. Le era mancato suo padre, e lo cercava in tutti gli uomini che incontrava, facendoli scappare. Ne era consapevole - celebre la sua frase «vanno a letto con Marilyn, si svegliano con Norma Jean» - ma non era in grado da sola di affrontare e superare il problema. Il vuoto dell’anima era una voragine che Norma Jean camuffava con Marilyn, come foglie, rami e arbusti celano le trappole per animali nella giungla.

    E alla fine in quella trappola fu lei stessa a cadere: amori sbagliati, amori proibiti (tra cui quel Mr President per cui intonò un celeberrimo Happy Birthday) e amori pericolosi (con Robert Kennedy, per vendicarsi del quale - secondo una teoria - la mafia uccise l’attrice, con un omicidio camuffato da suicidio).



    Lei si rifugiava dietro un’immagine di svampita - «una bimba smarrita, matta come un cavallo» la definì il fotografo Cecil Beaton - ma era capace allo stesso tempo di grande consapevolezza («La prego, non mi faccia apparire ridicola», chiese al giornalista di Life a cui rilasciò l’ultima intervista prima di morire), senza farsi probabilmente mai conoscere a fondo da nessuno. «Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte», ha raccontato di lei il costumista William Travilla.

    Ed è forse proprio questo mistero che l’ha proiettata nel mito. Icona immortale già mentre era in vita, Marilyn seppe diventare quello che il mondo voleva che lei fosse. E la sua immagine, quella dietro cui si rifugiava, è ovunque da sempre. Seriale, come gli arcinoti ritratti di Andy Warhol e la gonna bianca del suo abito sollevata dal passaggio della metropolitana in Quando la moglie è in vacanza. Ancora di più in quest’anno di anniversario, in cui le iniziative in suo onore sono innumerevoli in tutto il mondo.



    Dal già citato film evento di Netflix, con Ana de Armas, scritto da Joyce Carol Oates, alla mostra Forever Marylin by Sam Shaw – The Exhibition, in corso fino a settembre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi (dove il 4 agosto è prevista una serata speciale), nella quale si possono ammirare foto e memorabilia originali, tra cui oggetti personali, abiti e scarpe.

    «Alla morte di Marilyn tutti i suoi averi furono ritirati alla rinfusa in bauli che furono riaperti solo dopo circa 37 anni», ha raccontato proprio all’apertura della mostra torinese il proprietario degli oggetti esposti, il collezionista tedesco Ted Stampfer. «Solo nel 1999 infatti case d’asta come Christie’s e Julien’s resero pubblici i beni personali della Monroe. Si trovarono così reperti assolutamente eccezionali come piccole macchie sugli abiti e perfino le impronte digitali di Marilyn sulla crema viso ormai seccata».



    Dei veri e propri tesori, cristallizzati in un eterno presente come il mito della Monroe. Ma che ricordano al mondo che prima di essere un’icona, Marilyn era un donna. Una donna che quel mondo che tanto l’amava non ha saputo o voluto salvare.
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    Mi sento smarrito perchè ho solo me stesso...






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    “La creatura che Pasifae (…) aveva partorito” si trovò, trascinata dentro il “(…) labirinto costruito da Dedalo per proteggere gli uomini da quella creatura e la creatura dagli uomini, in modo cioè che nessuno, una volta entrato trovasse più la via d’uscita, con le innumerevoli e intricate pareti tutte di vetro, tanto che la creatura stava accovacciata non solo di fronte alla sua immagine ma anche alle immagini delle sue immagini: vedeva davanti a sé un’infinità di creature fatte com’era lui, (…) Si trovava in un mondo pieno di creature accovacciate senza sapere che tutte quelle creature erano lui. Era come paralizzato. Non sapeva dov’era né cosa volevano le creature accovacciate tutt’intorno, forse sognava soltanto ma non sapeva cosa fosse sogno e cosa realtà. Balzò in piedi istintivamente per scacciare le creature accovacciate e contemporaneamente balzarono in piedi le sue immagini. Si rannicchiò e con lui si rannicchiarono le sue immagini (…) le immagini abbassarono lo sguardo sul loro corpo, e mentre osservava se stesso e le sue immagini, (…) ritenne di essere una creatura fra molte creature uguali.. (…) D’un tratto però si interruppe (…) s’irrigidì, si accovacciò (…), aveva scorto tra le immagini danzanti, creature che non danzavano e che non erano immagini che gli ubbidivano. La fanciulla, riflessa anche lei come la creatura accovacciata, stava immobile, nuda con lunghi capelli neri, fra quelle creature accovacciate che erano dappertutto, davanti a lei, accanto a lei, dietro a lei, come dappertutto era anche lei, davanti a lui, accanto a lui, dietro di lui. (…). Il minotauro si alzò. Era imponente. Capiva improvvisamente l’esistenza di qualcos’altro oltre ai minotuari. Il suo mondo si era raddoppiato (…) Si mosse verso di lei. Quella si allontanò da lui, mentre altrove gli si muoveva incontro. L’inseguì attraverso il labirinto, lei fuggiva. Fu come se una bufera avesse scompigliato minotauri e fanciulle, a tal punto turbinavano discostandosi, confondendosi accostandosi l’un l’altro, e quando la fanciulla gli corse fra le braccia, quando toccò d’un colpo, la carne calda, bagnata di sudore, e non il duro vetro che aveva fin lì toccato, comprese – nei limiti in cui si può parlare di comprendere da parte del minotauro – che fino a quel momento era vissuto in un mondo in cui c’erano solo minotauri, ciascuno rinchiuso in una prigione di vetro, mentre ora toccava un altro corpo, toccava altra carne. ”.

    Il Minotauro, Friedrich Dürrenmatt

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    Edited by Lottovolante - 31/7/2021, 17:25
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    IL SILENZIO DELLE PIETRE
    Vittorino Andreoli



    Siamo nel 2028 e l’unica libertà che sembra essere rimasta all’uomo è la fuga dalla città. Così il protagonista di questo romanzo, ormai segregato tra le quattro mura della sua abitazione, terrorizzato anche solo dall’idea di aprire la porta, decide di andarsene. Lontano da tutti, dai rumori, dal caos, da un mondo dove è diventato impossibile vivere. Lontano da chi occupa abusivamente ogni spazio intorno a lui.Vittorino Andreoli immagina un futuro che somiglia molto al nostro presente, ma dove le ingiustizie si sono ancor più esasperate e, nonostante il benessere raggiunto grazie alle grandi scoperte, tutto parla di una situazione a un passo dal baratro. Una casa isolata, affacciata sull’oceano nel Nordovest della Scozia, sembra il luogo ideale per ritrovare un po’ di pace: una baia abitata soltanto da uccelli marini e, a ridosso, montagne che nel tempo si sono trasformate per l’azione del vento. È qui, osservando la perfezione di un ambiente rimasto invariato dal giorno della creazione, nel silenzio delle pietre, che riesce finalmente ad analizzare con maggiore distacco le contraddizioni che lo hanno spinto a cercare la solitudine estrema. Inebriato da tanta bellezza, si lascia tentare dall’idea di non tornare mai più, trasformando quella che doveva essere una parentesi temporanea in una scelta definitiva. Eppure, anche l’idillio, visto più da vicino, rivela lati meno luminosi. Ma soprattutto, nella più completa solitudine, si cancella ogni possibile relazione umana, ogni sentimento si spegne. La distanza poi cambia la prospettiva e apre uno spiraglio di luce e di speranza sui mali della metropoli. Quest’uomo può forse tornare a indossare gli eleganti abiti di città che aveva chiuso in un armadio al suo arrivo in Scozia? O invece, chissà, un’altra libertà è possibile? In questo romanzo, un grande scrittore e psichiatra ci racconta il profondo disagio del nostro tempo, prestando al protagonista tratti inevitabilmente autobiografici, ma nei quali ciascuno di noi può riconoscersi.


    Marchio: Rizzoli
    Collana: SAGGI
    Prezzo: 19.00 €
    Pagine: 336
    Formato libro: 23 x 15

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    QUANDO TUTTO INIZIA
    Fabio Volo



    Silvia e Gabriele si incontrano in primavera, quando i vestiti sono leggeri e la vita sboccia per strada, entusiasta per aver superato un altro inverno. La prima volta che lui la vede è una vertigine. Lei non è una bellezza assoluta, immediata, abbagliante, è il suo tipo di bellezza. Gli bastano poche parole per perdere la testa: scoprire che nel mondo esiste qualcuno con cui ti capisci al volo, senza sforzo, è un piccolo miracolo, ti senti meno solo. Fuori c'è il mondo, con i suoi rumori e le sue difficoltà, ma quando stanno insieme nel suo appartamento c'è solo l'incanto: fare l'amore, parlare, essere sinceri, restare in silenzio per mettere in ordine la felicità. Fino a quando la bolla si incrina, e iniziano ad affacciarsi le domande. Si può davvero prendere una pausa dalla propria vita? Forse le persone che incontriamo ci servono per capire chi dobbiamo diventare, e le cose importanti iniziano quando tutto sembra finito. Questo libro racconta una storia d'amore, ma anche molto di più. I sentimenti sono rappresentati nelle loro sfumature e piccole articolazioni con la semplicità e l'esattezza che rendono Fabio Volo un autore unico e amatissimo dai lettori italiani e non solo. Sullo sfondo di una narrazione che trascina fino all'ultima pagina c'è la sempre più difficile scelta tra il noi e l'io, tra i sacrifici che facciamo per la nostra realizzazione personale e quelli che siamo disposti a fare per un'altra persona, per la coppia o la famiglia. La differenza di dimensione tra essere felici ed essere felici.

    Genere:Narrativa moderna e contemporanea
    Listino:€ 19,00
    Editore:Mondadori
    Collana:Arcobaleno
    Data uscita:10/11/2017
    Pagine:180

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    VENEZIA
    MANI GIGANTI SPUNTANO DALL'ACQUA


    L' installazione sbuca dall'acqua e "sorregge" Ca' Sagredo


    Difficile non notarle. Giovedì sono apparse a Venezia delle colossali mani trasportate a bordo di una chiatta lungo il Canal Grande. Chi ha assistito alla singolare scena ha facilmente intuito che si trattasse di una delle installazioni della Biennale d'Arte in partenza in questi giorni, mentre il "mistero" sulla loro destinazione è stato risolto poco più tardi.“ Si tratta di un'installazione monumentale - tra gli 8 e i 9 metri di altezza - che rappresenta due mani che sostengono simbolicamente il palazzo; è stata realizzata da Lorenzo Quinn, scultore tra i più apprezzati a livello internazionale e veneziano per metà, da parte di madre. "Le mani - si legge nella descrizione dell'opera - sono strumenti che possono tanto distruggere il mondo quanto salvarlo, e trasmettono un istintivo sentimento di nobiltà e grandezza in grado anche di generare inquietudine, poiché il gesto generoso di sostenere l'edificio ne evidenzia la fragilità".“ Il progetto è patrocinato dal Comune di Venezia e promosso da Halcyon Gallery con il sostegno di Ca' Sagredo Hotel. L'installazione sarà visibile al pubblico dal 13 maggio al 26 novembre; per tutto il periodo dell'esposizione di Support, all'interno dell'Hotel Ca' Sagredo saranno in mostra alcune versioni di altre opere di Lorenzo Quinn, fra cui Leap of Faith [Atto di Fede], esposto all'Hermitage Museum di San Pietroburgo nel 2011, The Four Loves [I quattro Amori] e Love [Amore], collocate in Berkeley Square e Millbank a Londra nel 2017. Nel ringraziare Lorenzo Quinn e complimentandosi per la sua opera, Brugnaro ha dichiarato all'inaugurazione di venerdì 12 maggio: “Da sempre i privati sono quelli che supportano e portano avanti la città. L’idea della sussidiarietà è proprio questa. Iniziative come quella di Quinn valorizzano Venezia, e soprattutto suscitano l’orgoglio di chi la abita. Il Padiglione Venezia e le iniziative dei privati possono corroborare a rafforzare la Biennale, la cui ricchezza per la città è fuori di ogni discussione. Possiamo diffonderla in tutto il centro insulare e a Mestre, come abbiamo fatto con il padiglione ufficiale a Marghera. Diffondere la Biennale in tutto il territorio è il nostro vero obiettivo. Chi viene in città per esporre è ospite gradito e oggi, proprio un veneziano, ospita un artista così nuovo e importante: di ciò sono molto orgoglioso”.

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    DAMAGE AND JOY
    Jesus And Mary Chain


    2017 (ADA / Warner Music)


    Tornano dopo ben diciannove anni gli eretici pionieri del noise-pop

    I pionieri del noise-pop e degli assordanti muri di feedback di "Psychocandy" tornano dopo ben diciannove anni dal loro ultimo in studio. Gli scozzesi Jesus And Mary Chain sono stati tra i principali messaggeri dell'eresia del rumore e del feedback all'interno del mondo del pop, hanno fatto a pezzi la melodia ricercandola continuamente per poi triturarla ogni volta con dosi massicce di distorsioni e testi funerei. I loro live degli esordi, le continue provocazioni a un pubblico ancora impreparato a tale iconoclastia (concerti di poco più di dieci minuti suonati con le spalle rivolte al pubblico), le risse che spesso ne scaturivano (la distruzione del North London Polytechnic del marzo 1985), i testi blasfemi (gli operai che si rifiutano di stampare un loro 45 giri col brano "Jesus Suck") sono una leggendaria pagina di storia della musica rock che testimonia la portata eversiva delle idee dei fratelli Reid.


    Messe da parte le incomprensioni che avevano portato a questo lungo periodo d'assenza ("abbiamo sotterrato l'ascia di guerra"), pubblicano il nuovo "Damage And Joy" che ci consegna un gruppo fedele alla propria storia, portata avanti con coerenza e dignità da oltre trenta anni; l'iniziale "Amputation" parte subito con un riff tipico degli scozzesi, dove si definiscono come figli semi-putrefatti della musica rock ("I'm a rock and roll amputation"). La ballad darkwave "War On Peace" rievoca gli splendori oscuri di "Darklands" per essere devastata da un caotico finale post-punk. Altrove è la melodia a dettare tempi e regole; ma è una melodia malsana e depressa, un languido canto narcotizzato in compagnia della vocalist Bernadette Denning nel brano dal titolo emblematico "Always Sad", oppure della voce sospirata e impalpabile della sorella Linda Reid nei brani "Los Feliz (Blues And Greens)", "Can't Stop The Rock" o nel duetto pop onirico con Isobel Campbell di "Song For A Secret". L'alternanza di ritmi frenetici ("Get On Home"), ballate acustiche ("Black And Blues", con la cantante Sky Ferreira) e brani pop ("The Two Of Us" che "ricorda" molto da vicino "I Could Be Dreaming" dei Belle And Sebastian) funziona soprattutto per i nostalgici di una stagione ormai finita. Le idee dei fratelli Reid non cambiano e - a differenza degli anni 90 dove una certa influenza dei generi tipici di quel decennio c'è stata (grunge, britpop) - in questo caso non sembrano essere passati diciannove anni, ma sembra che il tempo si sia fermato. Questo porta a far ritenere che uno dei limiti dell'album sia la sua durata eccessiva (53 minuti), elemento che appare contraddittorio con gli assordanti concerti di soli dieci minuti degli esordi. L'impressione complessiva è che - dopo quasi venti anni di assenza - i Jesus And Mary Chain si siano ancora una volta confermati coerenti protagonisti dei loro tempi, molto meno invece della contemporaneità, sembrando tanto estranei ad essa che "Damage And Joy" potrebbe apparire come un ottimo prodotto di revival. Coerenza che potrebbe anche essere scambiata per immobilismo, come vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto; ognuno, nei "nuovi" Jesus And Mary Chain, vedrà l'uno o l'altro in base alle proprie personali preferenze. (Fonte recensione: Ondarock)

    Tracklist

    Amputation
    War On Peace
    All Things Pass
    Always Sad
    Song For A Secret
    The Two Of Us
    Los Feliz (Blues And Greens)
    Mood Rider
    Presidici (Et Chapaquiditch)
    Get On Home
    Facing Up To The Facts
    Simian Split
    Black And Blues
    Can't Stop The Rock
  14. .


    LICENSED TO KILL Ill
    Beastie Boys


    1986 (Def Jam)


    L'incendiario esordio del terzetto di Brooklyn che inventò una sintesi possibile tra rap e rock

    What's the time?
    It's time to get ill
    And what's the time?
    It's time to get ill
    So what's the time?
    It's time to get ill
    Now what's the time?
    It's time to get ill



    Certi prodigi non avvengono per caso. Il più delle volte c'è un percorso cercato e prestabilito a renderli a loro modo unici, una ricca e improbabile trama di intrecci composta da personaggi spesso e volentieri tra i più singolari. La storia della musica popular è zeppa di piccoli grandi miracoli in apparenza improvvisi, fenomeni massmediatici totalizzanti la cui presa pare inizialmente fuggire da qualsiasi possibile spiegazione. A tal proposito, l'esordio fulminante e straccia-classifiche dei newyorkesi Beastie Boys rimane senza dubbio uno dei casi più accecanti, terribilmente coinvolgenti e fisiologicamente ancorati al contesto storico del proprio periodo che il mainstream abbia mai conosciuto. È il 1986, e il mondo è in totale fermento. Ci sono svariate tensioni ad agitare le acque internazionali: dalla crisi iraniana ai drammi sudamericani, passando per le rivolte sociali inglesi contro la politica intransigente della Lady di Ferro, fino al conto alla rovescia dell'immediato tracollo sovietico. Da contraltare a tutto questo ben di Dio, c'è una città come New York che spiattella ricchezze a destra e a manca attraverso videoclip sempre più bizzarri e fascinosi, ma soprattutto odio, rabbia e disincanto mediante le rime dei nuovi cantori urbani: i cosiddetti Master of Cerimonies, in breve MC. Se da un lato è ancora presto per poter definire l'hip-hop come fenomeno di massa mondiale, dall'altro lato pionieri come LL Cool J e gruppi come Run-DMC hanno già invaso le piazze con il loro bell'arsenale di invettive incendiarie e partiture ritmiche a cui è semplicemente impossibile resistere. Tuttavia, manca ancora qualcosa affinché la platea tutta resti definitivamente travolta. A creare l'alchimia giusta, e a mettere assieme i cocci mancanti di quella che sarà una lunga e gloriosa storia, è il genio indiscusso di un produttore come Rick Rubin. È lui il segreto che si cela dietro il successo di una ricetta che manderà letteralmente in delirio gli States e via via, nel tempo, il resto del globo. In quel periodo, i Beastie Boys avevano già scalato lo star system musicale newyorkese, ponendosi come scheggia impazzita al centro di un ring occupato per la quasi totalità da beatmaker e MC afroamericani. Le voci stridule e il flow impertinente di Michael Diamond, Adam Horovitz e Adam Yauch spazzano via nel giro di pochissimo tempo tutto ciò che si era venuto a creare nel lustro precedente a suon di posse e guerriglia urbana dalle svariate confraternite nere. I campionamenti rock fusi all'unisono di brani come "When The Levee Breaks" dei Led Zeppelin, "Sweet Leaf" dei Black Sabbath e "I Fought The Law" dei Clash aggiungono poi quel tocco di totale distanza dalle soluzioni, mediamente più laccate e funk, dei propri colleghi. A rendere il tutto ancor più bizzarro e a suo modo geniale sono inoltre le parole adottate. Battute sarcastiche messe una dietro l'altra come colpi di una mitraglia il cui caricatore proprio non ne vuole sapere di esaurirsi come: "Friggin' in the riggin' and cuttin' your throat/ Big biting suckers gettin' thrown in the moat/ We got maidens and wenches - man, they're on the ace/ Ah, Captain Bligh is gonna die when we break his face/ Most illingest b-boy, well, I got that feeling/ I am most ill and I'm rhymin' and stealin'", affondano così nei cuori dei bianchi e dei neri dell'America reaganiana.

    Your mom busted in and said, "What's that noise?"
    Aw, mom, you're just jealous it's the Beastie Boys!


    Rhymin' and stealin', dunque. Un manifesto programmatico, di più: una dichiarazione d'intenti. Mettere in rima e "rubare" agli altri - beninteso: alla luce del sole - sono le principali preoccupazioni di un esordio che i tre di Brooklyn sognano da almeno cinque anni. Hanno annusato l'aria, deposto le chitarre, si sono chiusi in studio con Rubin e sono andati in tour con Madonna. Hanno scelto le rime più taglienti, e nel frattempo hanno fatto razzia. Stealin'. Che qui sta per rubare il rap dal monopolio afroamericano, anzitutto. Ma anche rubare scampoli di canzoni qua e là, con una predilezione per il mondo del rock mutuato dagli esordi nella scena hardcore che comporta, inevitabilmente, una implicita rivoluzione che un giorno verrà chiamata crossover. È il nuovo stile, letteralmente "The New Style", la postilla avanguardista al manifesto di cui sopra, un coacervo di citazioni e autocitazioni musicali e testuali che mescola gli ingredienti e li sputa fuori senza ritegno. L'ammutinamento del Bounty evocato nelle battute iniziali di "Rhymin & Stealin" è l'ultimo avvertimento rivolto agli incauti ascoltatori, destinati a diventare alcuni milioni nel giro di poche settimane: alla pari dei marinai britannici, i Beastie Boys vogliono cambiare il corso delle cose autoproclamandosi capitani della nave. A bordo, programmaticamente, regna la confusione: non c'è in "Licensed To Ill" una sola rotta musicale, ma una miriade di spunti appiccicati via via per puntellare la trama. Il collante è più che altro a livello concettuale: la voglia di divertirsi facendo più casino possibile, e allo stesso tempo l'idea - che diventa quasi una fissazione - di andare contro l'ordine prestabilito, qualunque sia. Il casus belli non può che essere rappresentato da "Fight For Your Right", il diritto di fare festa che si erge a ennesimo inno dei luccicanti anni Ottanta e, a ruota, il celeberrimo videoclip in cui il party al quale il trio si autoinvita sfugge di mano e la severa madre degli amici (anche nella realtà) viene presa a torte in faccia. Il riff di chitarra è gentilmente offerto da Kerry King degli Slayer, non foss'altro che in quel momento si trova in studio e viene convinto dal produttore (che guarda caso è sempre Rubin) a mettere la parte sulla base. King fa altrettanto nella parodia metal di "No Sleep Til Brooklyn", il cui titolo fa il verso ad altri giganti della scena hard/heavy, i Motorhead di "No Sleep 'til Hammersmith", mentre le liriche raccontano attraverso degli highlight la vita in tour. Le parti registrate da King sono una goccia nel mare di sample di cui le canzoni di "Licensed To Ill" sono infarcite. Come già segnalato in apertura, i tre sfoggiano l'amore per i Led Zeppelin e il rock in più di un'occasione, a cominciare proprio da "Rhymin & Stealin", che prende in prestito l'intro di batteria di "When The Levee Breaks". Il giro di chitarra appartiene invece ai Black Sabbath di "Sweet Leaf", curiosamente uscito lo stesso anno, il 1971. Chiude il cerchio la citazione di "I Fought The Law" dei Clash. Gli Zeppelin tornano (a loro insaputa) nella storiella salace di "She's Crafty", il riff di "Ocean" ad accompagnare le metriche in levare, e poi nel calderone fumettistico di "Time To Get Ill" (il brano "razziato" è "Custard Pie"), questa volta in compagnia di gente come Barry White, Steve Miller e Creedence Clearwater Revival. Quando ci si allontana dai riferimenti rock, i risultati sono ancora più eclatanti. Al di là delle liriche tacciate di sessismo, "Girls" dà la sensazione di entrare in un videogame dell'epoca fuori controllo. "Brass Monkey" sottende un'inedita vena jazz. La rapsodia "Hold It Now, Hit It" viene pubblicata come primo singolo forse proprio in virtù della sua disorientante - e dunque eloquente - parabola. Le atmosfere tropicali di "Slow Ride" sono invece campionate dalla quasi omonima "Low Ride" dei War, a conferma dell'interessa dei Beastie Boys verso il decennio Settanta. Ciò non toglie che nella tracklist non manchi anche qualche capitolo più aderente a un'idea "classica" del rap. "Paul Revere", con il suo andamento rallentato e gli scratch piazzati a regola d'arte, nasce per caso il giorno in cui Joseph Simmons dei Run-DMC raggiunge i Beastie Boys fuori da uno studio di registrazione e inizia a raccontare una storia confusa ("Here's a little story I got to tell you..."). Prima ancora, l'essenziale (e breve) "Posse In Effect" vede i tre dare saggio di un'arte alla quale sono arrivati per ultimi, ma alla propria maniera. I Beastie Boys continueranno a spiattellare album di notevole presa, come i successivi "Paul's Boutique", "Check Your Head" e "Ill Communication", mantenendo, dunque, alta la bontà di una proposta sempre intrigante, travolgente, a suo modo densa di improbabili intrecci sonori, ma soprattutto carica di irriverenza, sarcasmo, politically incorrect e tantissima gioia di vivere.


    Licensed to Ill

    Pubblicazione - 15 novembre 1986
    Durata - 44:33
    Tracce - 13
    Genere - Old school rap
    Golden age rap
    Alternative rap
    Rap rock
    Rap metal
    Etichetta - Def Jam, Columbia
    Produttore - Rick Rubin, Beastie Boys
    Registrazione - 1986

    Tracce

    Rhymin' & Stealin' – (4:08)
    The New Style – (4:36)
    She's Crafty – (3:35)
    Posse in Effect – (2:27)
    Slow Ride – (2:56)
    Girls – (2:14)
    (You Gotta) Fight for Your Right (to Party) – (3:28)
    No Sleep till Brooklyn – (4:07)
    Paul Revere – (3:41)
    Hold It Now, Hit It – (3:26)
    Brass Monkey – (2:37)
    Slow and Low – (3:38)
    Time to Get Ill – (3:37)

    Formazione

    Michael Diamond - voce
    Adam Horovitz - voce
    Adam Yauch - voce
    Rick Rubin - campionamenti
    Kerry King - chitarra elettrica
  15. .


    PINK FLAG
    Wire


    Harvest/EMI (1977)



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    Vocals-COLIN (Black hair)

    Drums-ROBERT GOTOBED (6’3”)

    Guitar-B.C. GILBERT (Blue eyes)

    Bass- LEWIS (9st. 6lbs)


    A parte le fotografie che le accompagnano, queste sono le sole informazioni che la band ci fornisce nella back cover di questo audace e stridente debutto. È lo stesso senso di dettagli parziali accoppiati a informazioni mancanti che nutre i Wire e le loro strategie musicali in quest’album di chitarre ronzanti. E le informazioni mancanti abbondano, dato che poche tracce durano più di due minuti, e la maggior parte ne dura meno di uno; sono fatte di dettagli, definizioni e scenari geografici: un labirinto di riprese tra l’ironico e il nonsense la cui cura per la definizione stride con l’apparente mancanza di una conclusione significativa. Ma “Pink Flag” è composto da 21 missive – asciutte, corrosive – più che da canzoni, che sono per la maggior parte urlate e suonate alla velocità di musicisti che hanno misurato i perimetri da dare alle loro creazioni prima di tutto sulla durata, poi sui testi, prima di farle diventare musica. E questi rigidi paletti hanno creato un sistema sonoro finale che ha riecheggiato sonoramente, influenzandoli, nei decenni successivi.


    I Wire hanno ridotto la musica pop a qualcosa di precisissimo eppure indefinibile; come nei dipinti enigmatici di Magritte, se pure tutto appare ordinato e finalizzato a qualcosa, spesso sembra comunque... stonato. Con questi 21 rompicapi di potenziale irrealizzato i Wire sono riusciti nell’intento di far diventare il punk una forma d’arte più matura: l’hanno denudato ulteriormente e hanno aggiunto argomenti presentati senza biasimo preconcetto, inquadrandoli da un punto di vista costantemente teso a un dettaglio grottesco che più che chiarire disorienta. Nonostante i Wire non si considerassero punk essi stessi, molti dei temi tipici del punk ricorrono nell’album: l’odio per i media, la politica, il sesso, riempiono testi che qui diventano ritagli di giornale, frammenti di un documentario estrapolati dal loro contesto, minuzie estemporanee. Il lessico del primo punk inglese è riutilizzato dai Wire come scheletro con cui imporre le loro coordinate, e non stupisce come l’immaginario delle mappe, dei territori e delle guide geografiche proliferi in molti dei testi e dei titoli delle canzoni. Ma la cosa più strana di “Pink Flag” è che a dispetto di tutte le sue tendenze mono-soniche, quelle che si sviluppano sotto la distorsione sono orecchiabili strutture di attrazione gravitazionale squisitamente pop, che attraggono miracolosamente la melodia facendola affiorare in superficie. L’intento ironico del gruppo diventa evidente: e anche la proverbiale stringatezza di questo suo debutto sembra voler sfidare il pop al suo stesso gioco, uscendone vincitore per grandezza filosofica più che per il gioco pretestuoso ma caustico del “quanto può essere corta una canzone?”. Certo, è una sfida che avrebbero potuto intraprendere in tanti. Questo è un album innovativo, intelligente, e pure dannatamente figo. Ma è anche il risultato prevedibile di ciò che succede quando dei ragazzi capaci, acuti, usciti da un art college con la mente impregnata di post-modernismo si riuniscono e dicono: “Il punk è pazzesco, ma non sarebbe ancora meglio se ce ne prendessimo gioco in modo elitario?”. Sarebbe potuto accadere a chiunque con una mente razionale e un certo tipo di educazione “artsy”. Ma è semplicemente successo che i Wire, nel dicembre del 1977, abbiamo registrato il primo album di “meta-punk” della storia; il "Trout Mask Replica" del punk. Solo che io preferisco "Pink Flag", perché riesce a trovare un modo più diretto, potente e godibile di unire il tradizionale e l’avanguardistico. Se non riuscite ad afferrarlo o a farlo vostro, alzate il volume al massimo e mettete in play “Surgeon’s Girl”. Ascoltate la furia di quel riff di un solo accordo mentre riduce il vostro corpo in brandelli!!!

    Pink Flag

    Pubblicazione - 1977
    Durata - 35 min : 37 s (originale e ristampa 2006)
    39:31 (ristampa 1994)
    Genere - Post-punk
    Etichetta - Harvest/EMI - Pinkflag
    Produttore - Mike Thorne
    Registrazione - Advision Studios, Settembre - Ottobre 1977


    Tracce

    Tutte le tracce scritte da Bruce Gilbert, Graham Lewis, Colin Newman e Robert Gotobed, eccetto dove indicato.

    Lato A

    Reuters – 3:03
    Field Day for the Sundays – 0:28
    Three Girl Rhumba – 1:23
    Ex Lion Tamer – 2:19
    Lowdown – 2:26
    Start to Move – 1:13
    Brazil – 0:41
    It's So Obvious – 0:53
    Surgeon's Girl – 1:17
    Pink Flag – 3:47

    Lato B

    The Commercial – 0:49
    Straight Line – 0:44
    106 Beats That – 1:12
    Mr. Suit – 1:25
    Strange – 3:58
    Fragile – 1:18
    Mannequin – 2:37
    Different to Me (Annette Green) – 0:43
    Champs – 1:46
    Feeling Called Love – 1:22
    12XU – 1:55

    Bonus track (ristampa CD)

    Dot Dash – 2:25 [ristampa 1994]
    Options R – 1:36 [ristampa 1989 e 1994]


    Formazione

    Colin Newman - voce
    Bruce Gilbert - chitarra
    Graham Lewis - basso
    Robert Gotobed - batteria
    Kate Lukas - flauto in Strange
    Dave Oberlé - voce d'accompagnamento in Mannequin

2929 replies since 21/4/2008
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